La decima richiesta
di David Pozen, Columbia University, Law School
traduzione di Marco Magri, Università di Ferrara
L’intervento del professor Pozen, pubblicato il 31 marzo 2025 si riferisce alla confusa vicenda istituzionale sviluppatasi nel mese di marzo e conclusasi con le “dimissioni” della Rettrice ad interim della Columbia Univesity, Katrina Armstrong, pochi giorni dopo la risposta data alle tre agenzie del Governo federale che avevano intimato una riforma “per punti” delle regole universitarie di contrasto all’antisemitismo. Sostanzialmente le richieste dall’amministrazione Trump imponevano alla Columbia di rafforzare i propri poteri disciplinari, attenendosi a nove criteri dettati dalle agenzie, a pena della definitiva perdita dei finanziamenti destinati all’Università. Le dimissioni della Rettrice (la “decima richiesta” appunto), sono pervenute misteriosamente, ma non casualmente, dopo una soffiata a una società di media, la quale ha diffuso la notizia che in un consiglio di Facoltà la Rettrice non si era mostrata sinceramente e realmente disposta ad adeguarsi alle indicazioni dell’amministrazione federale. Questa inaccettabile interferenza dell’autorità politica sulle istituzioni universitarie, tra l’altro fondata sulla circolazione di notizie accusatorie sommarie e per nulla verificate, preoccupa profondamente e interessa non soltanto la Columbia (né Harvard, la cui vicenda è salita alle cronache successivamente ai fatti cui si riferisce Pozen), ma tutta la comunità accademica, a prescindere dalle opinioni sui fatti storici dai quali essa ha preso consistenza e dai più recenti accadimenti (inclusa l’occupazione della biblioteca Butler, maggio 2025). Sono personalmente molto grato al professor Pozen per aver consentito questa pubblicazione, che contribuisce a un dialogo tra studiosi indispensabile in un momento di profonda oscurità per le istituzioni accademiche e per la garanzia dei diritti umani da sempre radicata nel cuore delle università.
(Marco Magri)
L’ultimo dramma della Columbia, che vede le “dimissioni” della Rettrice ad interim Katrina Armstrong, ha profonde implicazioni per l’accademia e la democrazia americana. Esaminato a fondo, questo episodio mette in notevole risalto la questione se le università operino o meno al servizio della Casa Bianca.
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Ricapitoliamo gli eventi che hanno preceduto la vicenda. Il 7 marzo, quattro agenzie federali hanno annunciato la «cancellazione di circa 400 milioni di dollari in sovvenzioni e contratti federali alla Columbia University a causa della continua inazione della scuola di fronte alle persistenti molestie nei confronti degli studenti ebrei». Il 13 marzo, tre di queste agenzie hanno inviato alla Rettrice Armstrong un elenco di nove richieste delle quali hanno preteso una risposta entro il 20 marzo «come precondizione per i negoziati formali riguardanti la continuazione dei rapporti finanziari della Columbia University con il governo degli Stati Uniti». Queste richieste seguivano da vicino gli elenchi diffusi nelle settimane precedenti dai membri della facoltà e dai gruppi di ex alunni della Columbia, preoccupati che l’università non stesse facendo abbastanza per proteggere gli studenti ebrei e israeliani.
Tra il 13 e il 20 marzo, innumerevoli persone, dentro e fuori la Columbia, hanno discusso su come l’Università avrebbe dovuto rispondere alle illegittime minacce finanziarie dell’amministrazione Trump. Nel frattempo, l’amministrazione ha fatto seguire a queste minacce la violenza di Stato, trattenendo almeno quattro non-cittadini che avevano partecipato alle proteste alla Columbia o a Barnard per l’arresto e la deportazione. Il giorno successivo all’arrivo della lettera di richiesta, il vice procuratore generale di Trump ha anche reso noto che l’Università (e, implicitamente, la sua dirigenza) è sotto indagine penale «per aver ospitato e nascosto stranieri illegali nel suo campus».
Dopo aver ottenuto una proroga di un giorno, il 21 marzo la Rettrice Armstrong e il Consiglio di amministrazione della Columbia hanno pubblicato la risposta dell’università. La risposta ha approvato una versione modificata delle nove richieste del governo. La Armstrong e gli amministratori hanno definito i passi da compiere come già «in corso» e «destinati a promuovere la missione di base della Columbia». Nessun grande problema! (E anzi nessun problema, visto che i passi erano solo «precondizioni» per potenziali negoziati a venire). Eppure, quasi universalmente, la risposta della Columbia è stata interpretata come una capitolazione nei confronti di Trump, con conseguenze potenzialmente gravi per il futuro dell’istruzione universitaria.
Durante il fine settimana successivo, la Armstrong ha convocato i membri della facoltà di tutta l’università per discutere la controversa decisione che era stata appena presa senza il coinvolgimento diretto di nessuno di loro. La trascrizione di una parte di questo incontro è stata divulgata da The Free Press, una società di media fondata dall’ex alunno della Columbia Bari Weiss, che ha raggiunto la notorietà criticando la politica anti-israeliana della facoltà di studi mediorientali, sud-asiatici e africani della Columbia. Il 25 marzo, The Free Press ha ricavato un articolo dalla soffiata che gli era stata fatta, intitolato «La Rettrice della Columbia dice una cosa all’amministrazione Trump e un’altra in privato».
Non è chiaro se le osservazioni della Armstrong abbiano effettivamente smentito qualcosa della posizione pubblica dell’università – che ha sostenuto fin dall’inizio che i mutamenti di politica erano misure modeste in linea con i piani preesistenti – o non piuttosto se abbiano evidenziato le contraddizioni interne di questa posizione. La vicenda è stata comunque vissuta come uno scandalo dal fronte dagli anti-contestatori. Nel tentativo di convincere la Facoltà della Columbia che l’autonomia istituzionale e la libertà di parola non erano state fatalmente sacrificate, la Armstrong è stata definita come una persona dimostratasi «molto ambigua», una «grande bugiarda».
La notte del 28 marzo, gli amministratori della Columbia hanno annunciato a una comunità universitaria sbalordita che la Armstrong «tornerà a dirigere l’Irving Medical Center dell’Università» e che «la co-presidente del Consiglio di amministrazione Claire Shipman è stata nominata Rettrice ad interim, con effetto immediato, e resterà in carica fino a quando il Consiglio non avrà completato la ricerca della Rettrice». Poco dopo, la Task Force congiunta dell’amministrazione Trump per la lotta all’antisemitismo ha rilasciato una dichiarazione in cui elogiava «l’azione intrapresa oggi dagli amministratori della Columbia, soprattutto alla luce delle preoccupanti rivelazioni di questa settimana». L’unica «rivelazione» a cui si fa plausibilmente riferimento è la trascrizione della riunione di facoltà a porte chiuse che è stata condivisa da qualcuno della Columbia con The Free Press.
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Non occorre grande sagacia politica o abilità ermeneutica per trarre una conclusione da questa sequenza di eventi, anche se finora nessuno sembra aver riconosciuto apertamente il punto: la Rettrice Armstrong non si è dimessa volontariamente; è stata costretta ad andarsene perché ritenuta non sufficientemente impegnata in una particolare visione di come l’antisemitismo debba essere combattuto nel campus.
Per quanto ne so, la Armstrong non aveva rilasciato alcuna dichiarazione precedente la quale lasciasse intendere che stesse pensando di dimettersi. E né la dichiarazione del consiglio di amministrazione né la dichiarazione contemporanea della Armstrong contengono alcun dettaglio che indichi che quest’ultima ha effettivamente scelto di dimettersi. L’elogio dell’amministrazione Trump per «l’azione intrapresa dagli amministratori della Columbia», invece, implica chiaramente che la decisione di sostituire la Armstrong sia stata presa dal consiglio. È inoltre degno di nota il fatto che la notizia delle dimissioni della Armstrong sia stata riportata per la prima volta dal Wall Street Journal, una testata che di recente ha pubblicato diverse storie sulla Columbia, tutte a firma dello stesso giornalista, basandosi su fonti universitarie non citate che sembrano impazienti di vedere la Columbia fare tutto il necessario per ripristinare i finanziamenti federali.
La prima domanda che ne consegue è: chi, esattamente, ha costretto la Amstrong ad andarsene? Forse gli amministratori sono stati così turbati dalla trascrizione trapelata che hanno perso la fiducia in lei. Questa spiegazione, tuttavia, è difficile da far quadrare con il contenuto ambiguo della trascrizione, il forte sostegno dei membri del Consiglio di Amministrazione alla Armstrong prima della scorsa settimana e la celebrazione quasi immediata della sua partenza da parte della Joint Task Force. Sembra molto più probabile che i componenti del Consiglio siano stati spinti dall’amministrazione Trump a licenziare la Armstrong come ulteriore condizione per poter ricevere fondi, indipendentemente dal fatto che l’università ne avesse comunque diritto.
Si presume che questa richiesta sia stata comunicata esplicitamente o implicitamente in conversazioni private tra funzionari governativi e amministratori della Columbia. Tuttavia, anche se non ci fossero state tali conversazioni, a questo punto sarebbe irrilevante. L’amministrazione Trump aveva già manifestato il suo disappunto per la storia del Free Press all’inizio della settimana. Accettando una strategia che mira a soddisfare le richieste dell’amministrazione federale, anche se illegittime, gli amministratori si sono ispirati a una logica strategica in base alla quale la capacità di guida di un Rettore della Columbia non può essere separata dai desideri e dai malcontenti dello stesso presidente degli Stati Uniti.
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La consapevolezza che l’amministrazione Trump ha di fatto cacciato la Rettrice della Columbia porta a molte altre domande. Per citarne alcune, come è stata trasmessa questa decima richiesta agli amministratori della Columbia? Il Segretario all’Istruzione Linda McMahon ha sostenuto la Armstrong, quindi sembra che la McMahon sia stata emarginata in ossequio alla Casa Bianca. Ora è Stephen Miller [consigliere politico di Trump in tema di immigrazione, n.d.r.] a definire la politica universitaria?
O forse la decisione di rimuovere Armstrong è meglio concepibile come prodotta congiuntamente dal team di Trump e dai membri della comunità della Columbia che sembrano inviargli informazioni e idee attraverso canali privati? Ricordiamo che la sostanza dell’elenco iniziale di richieste del governo è stata elaborata all’interno della Columbia. Se questa è davvero l’interpretazione migliore, stiamo assistendo alla congiuntura di (1) il potere formale radicalmente antidemocratico esercitato dal consiglio di amministrazione della Columbia, un organo auto-perpetuantesi di una ventina di persone; e (2) il potere politico radicalmente antidemocratico esercitato da un piccolo gruppo di insiders dell’università allineati con la Casa Bianca, almeno su questo tema.
Le domande più importanti suscitate dalla «decima richiesta» sono rivolte al futuro. Tra l’amministrazione Trump, i membri del Consiglio di amministrazione dell’università, questi influenti insiders e i principali finanziatori, come verrà gestita la scelta del prossimo Rettore della Columbia? A qualcun altro sarà concessa una partecipazione significativa alla decisione?
Anche se il sistema di scelta è impostato in modo da includere altre proposte a livello procedurale, alla fine sarà la Casa Bianca stessa a determinare il risultato? O forse la Casa Bianca non imporrà una selezione specifica, quanto piuttosto chiarirà quali candidati ritiene accettabili e quali invece sottopone a “veto” perché non sembrano sufficientemente allineati con il suo approccio preferito al controllo della libertà di parola nei campus? Queste possibilità dovrebbero essere un monito per tutti coloro che hanno a cuore la libertà accademica, a prescindere dalle opinioni sulle recenti proteste studentesche, sulla guerra a Gaza o sulle riforme che la Columbia dovrebbe fare.
A parte i dettagli campanilistici, tutti coloro che sono preoccupati per la direzione che potrebbe prendere l’agenda accademica dell’amministrazione Trump dovrebbero quindi prendere nota di ciò che è appena accaduto qui e porsi almeno altre due domande. Se questa è una rappresentazione plausibile della situazione che si sta verificando alla Columbia, siamo al punto in cui le università di tutto il Paese devono avere presidenti che siano d’accordo con il presidente Trump, altrimenti rischiano tagli disastrosi ai loro finanziamenti federali? E se questa, a sua volta, è una rappresentazione plausibile di una torsione autoritaria dell’istruzione superiore, quando i leader universitari giungeranno alla conclusione che devono reagire, individualmente e collettivamente, per avere una possibilità di fermarla?