L’academic freedom al tempo di Trump. Un dialogo con Robert Post e Bruce Ackerman: Parte II
di Benedetta Barbisan
Università di Macerata
Davvero il venir meno dei contributi pubblici alle università statunitensi più prestigiose (e fra le più ricche) comprometterà la ricerca, pregiudicandone l’autonomia? Come si inserisce l’accanimento dell’amministrazione Trump contro queste istituzioni nell’azione complessiva della Casa Bianca, e di quali mezzi giuridico-politici si sta servendo allo scopo? Di questo e di altro abbiamo parlato con Robert Post e con Bruce Ackerman, entrambi costituzionalisti alla Yale Law School.
Dialogare con Robert Post di academic freedom significa rivolgersi al costituzionalista che ha dedicato molti studi a questo imprescindibile valore delle nostre società in un tempo in cui gli attentati che vengono perpetrati oggi erano molto di là da venire (si veda per tutti Robert C. Post, Democracy, Expertise, and Academic Freedom. A First Amendment Jurisprudence for the Modern State, Yale University Press, 2012). L’academic freedom gode della protezione del Primo Emendamento da più di sessant’anni, sin da quando, nella pronuncia Keyishian v Board of Regents, 385 U.S. 589 (1967), la Corte Suprema la affermò come antidoto ai tentativi di investire le classi di una spessa coltre di ortodossia. Nondimeno, i giudici non hanno veramente superato il fraintendimento che corre fra la necessità della academic freedom ai fini del libero mercato delle idee con cui istruire i leader del futuro e ai fini di quella che Post chiama la democracy competence. Per le corti, in classe qualsiasi ortodossia andrebbe evitata perché è il pluralismo delle voci e delle opinioni a crescere liberi pensatori refrattari a forme di autoritarismo del pensiero. Post contesta questo approccio, perché le università non sono meri luoghi di libera espressione, ma le sedi in cui si arriva a distinguere fra idee buone e verificate e idee falsificate e da scartare: solo praticando liberamente il senso critico e la confutazione delle teorie, infatti, si può immaginare il progresso delle scienze. Il mondo accademico americano ha impiegato molto tempo per avvedersi di questa missione, cosa che è potuta avvenire solo quando la concezione di istruzione superiore come formazione attraverso alcune verità rivelate lasciò il passo all’ideale tedesco della Wissenschaft.
L’amministrazione Trump arriva al paradosso di negare in un sol colpo entrambe queste accezioni di academic freedom: rifiuta quella del libero mercato delle idee, asserendo che gli atenei sono preda di un pensiero unico e che per questo vanno rieducati, e rigetta con ancor più vigore quella di democracy competence, perché in quest’ottica la scienza tutta obbedisce a regole e dinamiche che sfuggono a ogni imposizione esterna. ‘L’amministrazione Trump’, rincara Post, ‘ha agito in modo molto aggressivo per esercitare il controllo federale sulle università americane. Ha usato l’accusa (in gran parte ingiustificata) di “antisemitismo” come pretesto per pretendere la pratica di una “diversità ideologica” all’interno delle università, che altro non significa che obbligarle ad assumere più docenti che credono nell’ideologia conservatrice che innerva il suo governo. Ha disposto dei finanziamenti federali con l’unico obiettivo di porre fine alla ricerca che studia le etnie o il genere. Ha tentato di schiacciare le università che considera ostili alle politiche dell’amministrazione sottraendo loro i finanziamenti pubblici, come nel caso di Harvard, e attraverso il diniego federale sui visti ha impedito il reclutamento di studenti e studiosi internazionali. Ultimo ma non ultimo, si è servito dell’Internal Revenue Service, l’agenzia che gestisce la leva fiscale federale presso il Dipartimento del Tesoro, per revocare ad alcuni atenei percepiti come ostili lo status fiscale 501(c)(3) grazie al quale, dall’entrata in vigore del Revenue Act 1909, gli enti non profit sono esentati dal pagamento dell’imposta federale sul reddito che ricavano dalle donazioni che ricevono per la loro missione. E questo perché Trump ritiene che le università, anziché corrispondere alla loro funzione educativa, in realtà non facciano altro che indottrinare gli studenti alle idee della sinistra radicale e, pertanto, abbiano da tempo cessato di agire nell’interesse pubblico per il perseguimento del quale sono previste le esenzioni.
Proprio nel mezzo della nostra conversazione, Post riceve una e-mail da un collega di Chicago classicista che, però, si è messo a far di conto proprio per mostrare la vulnerabilità di atenei pur dotati di un capitale colossale come quello di Harvard. Post mi gira subito la bozza di questo studio e mi autorizza a usarlo. Vi trovo conferma dell’endowment di Harvard, ma il dato più interessante è che quei miliardi di dollari sono in realtà distribuiti su quattordicimila diversi fondi di investimento (a Yale, i fondi sono 8 700, a UPenn 7 800), l’ottanta percento dei quali ha una destinazione d’uso vincolata: infatti, i donatori versano i loro contributi allo scopo di finanziare spese specifiche, che non possono essere sostituite con altre a discrezione dell’università. Mi accorgo che Harvard è in media: anche nel caso di Stanford, il vincolo riguarda il 75 percento dei fondi e a Chicago si supera addirittura il novanta. Dunque, la scala di queste disponibilità finanziarie miliardarie non deve tradursi in una corrispondente liquidità. Detto in altre parole, quello che viene meno per i tagli ai contributi pubblici in generale non è compensabile coi fondi di investimento in dotazione agli atenei.
Altri due fattori concorrono a spiegare perché il venir meno dei contributi pubblici può scuotere le finanze di atenei così ricchi: uno attiene alle borse di studio per gli studenti statunitensi che ne hanno bisogno e l’altro è il numero di studenti internazionali ammessi. In tutte le università, le procedure di selezione degli studenti avvengono sempre need-blind, ovvero senza sapere in anticipo se quei candidati faranno richiesta di un sostegno economico agli studi. Alcune università coprono le borse di studio con le tasse versate da coloro che si iscrivono: per esempio, nel 2024 Dartmouth ha erogato aiuti per oltre 237 milioni di dollari a fronte di una raccolta delle tuition di 243 e la stessa cosa è avvenuta a Chicago. Princeton, al contrario, ha destinato quasi sei miliardi di general revenue, cioè di fondi governativi, alle borse di studio.
In genere, gli studenti internazionali – che non possono beneficiare delle borse di studio riservate ai loro colleghi americani – pagano tasse più alte degli altri di modo che una parte delle loro tuition possa finanziare gli aiuti economici destinati ai nazionali. Dunque, scoraggiare il reclutamento di studenti stranieri – che, nel caso di Harvard, si iscrivono soprattutto ai corsi graduate, con il rischio di un contraccolpo nella sostenibilità di questi programmi senza la loro partecipazione – non ha solo una ricaduta in termini reputazionali ma, per alcune università, si traduce in un corrispondente danno economico.
Scorro via via i dati che mi ha trasmesso Post e scopro la vulnerabilità a cui sono esposte istituzioni accademiche privatissime al venir meno del sostegno pubblico. Del resto, alla fine della Seconda guerra mondiale, promuovere la scienza fu la nuova frontiera del governo federale e una delle sue priorità: a questo investimento costante si deve l’espansione della ricerca negli Stati Uniti. Una ricerca che attualmente, in ambiti pionieristici come l’ingegneria molecolare o il calcolo quantistico, è incommensurabilmente più costosa di quella necessaria ad altri settori scientifici. In aggiunta, i rettori sanno bene – per quanto contro-intuitivo possa suonare – che le tanto desiderate donazioni dei loro alumni in verità legano loro le mani e, alla resa dei conti, non li fanno nemmeno ricchi, se sono così poco liberi di spendere come servirebbe i miliardi di dollari che ricevono, soprattutto nel caso venga a mancare il sostegno del governo.
Chiedo a Post che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro. ‘Le università hanno intentato causa. A mio parere, questi ricorsi saranno vinti, perché è indubbio che la condotta dell’amministrazione sia incostituzionale. Ma far valere le sentenze contro questa amministrazione per tornare alla normalità, assicurandosi pro futuro sovvenzioni e visti federali, è cosa ben diversa dal ripristino dei visti e delle sovvenzioni oramai illegalmente revocati’.
Yale non è fra gli atenei contro cui l’amministrazione Trump sembra accanirsi, ma gli scienziati che vi lavorano dicono che il vero danno è comunque iniziato mesi fa, quando hanno constatato l’erosione dei finanziamenti federali per la scienza, il congelamento, il ritardo o la silenziosa revoca delle sovvenzioni, in generale lo stallo nelle erogazioni da sempre linfa vitale per la ricerca universitaria. Si tratta dei tagli di bilancio che, per il 2026, prevedono una riduzione di 18 miliardi di dollari per i National Institutes of Health (NIH) e di quasi il cinquanta percento per la National Science Foundation (NSF), con la temibile prospettiva di mettere in crisi i laboratori e pregiudicare il futuro della ricerca universitaria – quella medica più di ogni altra. Secondo un’analisi condotta a Yale utilizzando il database NIH RePORTER, i finanziamenti NIH all’università tra il 1° ottobre 2024 e il 1° maggio 2025 sono diminuiti del 33,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nel 2025, Yale ha ricevuto 148,4 milioni di dollari in finanziamenti NIH, in netto calo rispetto ai 224,3 milioni di dollari del 2024. Di fronte a questi dati, non si deve dimenticare che tali riduzioni hanno una ricaduta pesantissima sugli ospedali universitari che, oltre che centri scientifici, sono anche luoghi di cura per migliaia di pazienti americani e provenienti da tutto il mondo.
A Yale insegna ininterrottamente dal 1987 Bruce Ackerman. Anche a lui chiedo di dialogare sulla situazione attuale. Ackerman mi invita a inquadrare la rappresaglia contro gli atenei e la loro autonomia dentro una strategia complessiva di assalto ai principi che hanno costituito le fondamenta del governo degli Stati Uniti negli ultimi ottant’anni. Questa strategia procede lungo due assi: la messa in discussione dell’Administrative Procedure Act (APA) e la progressiva distruzione della autonomia delle agenzie indipendenti.
Cominciamo con il primo asse. L’APA è entrato in vigore nel 1946 come normativa di riferimento per l’esercizio del potere amministrativo in un contesto post-bellico. La barbara parabola di Adolf Hitler in Europa istruiva anche gli Stati Uniti sul pericolo che comporta l’attribuzione al Presidente di poteri così ampi da rendere ipoteticamente possibile una deriva anti-democratica. Toccò a Harry Truman di intervenire, e lo fece sostenendo l’approvazione dell’APA pur nella consapevolezza che avrebbe di molto ridotto i suoi poteri – quelli che Franklin Delano Roosevelt aveva potuto dispiegare fino a pochi mesi prima. Oggi, Donald Trump, evidenzia Ackerman, sta facendo strame dell’APA, in cui è previsto che, ogni qual volta si intenda emanare nuove norme o sostituire quelle poste in essere da una amministrazione precedente, le executive agencies del governo federale devono impegnarsi in una procedura chiamata Notice-and-Comment Rulemaking: in primo luogo, la legislazione che si propone deve essere iscritta nel Federal Register per dare alla cittadinanza l’opportunità di esprimere le proprie osservazioni nelle settimane successive e contribuire in questo modo alla redazione delle nuove norme. L’agenzia proponente è chiamata a prendere in considerazione i commenti più pertinenti e, quando la nuova legislazione è emanata tramite pubblicazione sul Federal Register, a rispondere ai rilievi che sono stati avanzati dal pubblico. Coloro che non si ritengano soddisfatti delle spiegazioni offerte dall’agenzia hanno facoltà di impugnare la nuova normativa davanti a una corte federale: solamente se i giudici valuteranno infondate le ragioni del ricorrente, allora le norme potranno finalmente entrare in vigore.
Ackerman individua due forme di violazione dell’APA nei provvedimenti dei primi cento giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca: la prima riguarda l’eccezione dalla procedura di Notice-and-Comment per le questioni relative alla politica estera e della difesa che il governo federale ha interpretato in una chiave molto discutibile per tenersi le mani libere su due questioni propagandisticamente prioritarie, vale a dire l’immigrazione e la protezione dei confini nazionali. Ma la sollevazione piuttosto corale che queste manipolazioni hanno suscitato non deve far velo alla seconda forma di violazione, perpetrata attraverso l’ordine impartito alle executive agencies dal Presidente stesso di non seguire il Notice-and-Comment Rulemaking, a cui si è aggiunta l’ingiunzione di eliminare dieci regolamenti già esistenti ogni volta si abbia intenzione di proporne uno nuovo, e questo a prescindere dalla priorità, dal contenuto, dalla coerenza legislativa complessiva. L’accantonamento della procedura di Notice-and-Comment illustra plasticamente il pervertimento delle regole per il perseguimento di obiettivi assoluti.
Il secondo asse riguarda l’autonomia delle agenzie indipendenti. L’Office of Information and Regulatory Affairs situato all’interno dell’ufficio del Presidente si è arrogato il potere, rileva Ackerman, di scrutinare i regolamenti che disciplinano il funzionamento di ben quaranta agenzie indipendenti al fine di verificare se soddisfino i criteri relativi ai costi e ai benefici della loro azione. Questo sta accadendo nonostante il Congresso abbia escluso che il potere esecutivo possa estendere il suo controllo su di esse proprio allo scopo di evitare abusi di potere e, soprattutto, per scongiurare che le agenzie possano essere strumentalmente usate dal Presidente in carica per colpire gli avversari politici. Fra le agenzie amministrative indipendenti figura, per esempio, la National Science Foundation (NSF), la cui funzione – lo ricordavamo supra – è di sostenere la ricerca e l’istruzione in tutti i settori diversi dalla medicina con finanziamenti che, specie in alcuni ambiti come la matematica, la computer science, l’economia e le scienze sociali, costituiscono la prima fonte di sostegno alle attività scientifiche. Dunque, il fenomeno della compressione dell’autonomia delle agenzie indipendenti include anche i condizionamenti che il governo federale intende imprimere alle università disponendo una riduzione di queste erogazioni. Se, poi, si aggiunge che i National Institutes of Health (NIH) sono una agenzia del governo per l’ambito biomedico e per la salute pubblica direttamente sotto il controllo del potere esecutivo, si comprende quanto il quadro più generale spieghi gli attentati all’autonomia delle università.
Anche ad Ackerman chiedo che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro. Mi risponde con una inedita determinazione alla mobilitazione. La Enlightenment Democracy, così la chiama, è minacciata con una virulenza senza precedenti e, dunque, questo è un tempo in cui occorre accantonare le differenze fra coloro che hanno a cuore le fondamenta della democrazia americana. Bisogna agire, organizzare una campagna che susciti reazioni, che aumenti la consapevolezza fra i cittadini di quanto della civiltà statunitense è messo oggi a repentaglio. L’unica speranza, dice, è che sia questa consapevolezza a pesare sulle elezioni di medio termine del novembre 2026.
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