Le conseguenze istituzionali del riarmo: Parte I
Marco Dani – Università di Trento
Agustín José Menéndez – Universidad Complutense de Madrid
L’Unione europea ha deciso: di fronte alla minaccia esistenziale costituita dal militarismo russo e al possibile disimpegno degli Stati Uniti d’America dall’Europa, è arrivato il momento del riarmo attraverso un corposo piano di investimenti nel settore militare. “Pace attraverso la deterrenza”: così si può esprimere il nuovo imperativo di un’Unione che ritiene che solo con un inedito potenziamento del settore della difesa si possano ammansire le forze esterne (Russia e Cina in primis) che minaccerebbero lo stile di vita e i valori europei.
In presenza di un consenso tanto ampio e trasversale come quello registrato al Consiglio europeo del 6 marzo 2025, è inutile obiettare che proprio l’ossessione con la deterrenza fu all’origine della “guerra civile europea dei trent’anni” e che l’obiettivo del riarmo contraddice l’impegno originario espresso nella Dichiarazione Schumann di rendere non solo “impensabile”, ma anche “materialmente impossibile” qualsiasi guerra in Europa. Nemmeno considerazioni più attuali sembrano destinate ad un maggiore successo: davvero è il caso di procedere ad un incremento della già cospicua spesa militare senza aver prima razionalizzato la spesa esistente, ovvero creando le opportune sinergie tra le difese nazionali? Davvero il riarmo è un obiettivo prioritario in un’Europa in cui forze politiche dalle scarse credenziali democratiche paiono in procinto di prendere il sopravvento in molti paesi (tanto più se l’aumento della spesa militare comporterà un taglio alla spesa sociale e agli altri investimenti pubblici)?
Simili domande le lasciamo ai posteri, perché ormai il dado è tratto. Più che interrogarci sulla bontà di una scelta politica ormai consolidata, riteniamo sia più opportuno esaminarne il contenuto specifico e le conseguenze sugli assetti istituzionali e socio-economici europei. Data l’ampiezza del piano di riarmo europeo, ne proponiamo un’analisi articolata in due parti. Nella prima evidenzieremo il persistente iato che esiste tra l’aspirazione ad instaurare un vero e proprio governo della difesa europea e le effettive misure previste dal piano approvato dal Consiglio europeo. Nella seconda parte esamineremo alcuni profili giuridici della sospensione del Patto di Stabilità e Crescita e del programma Security Action for Europe (SAFE). Sulla base di questa analisi sosterremo che il piano di riarmo, lungi dal costituire un passo deciso verso l’autonomia strategico-militare dell’Unione, si presenta come un programma più modesto per il potenziamento dei complessi militari-industriali nazionali concepito all’interno di un quadro istituzionale che prevedibilmente faticherà a garantire livelli sufficienti di perequazione e coordinamento della spesa nazionale per la difesa.
Uno iato tra aspirazioni e realtà
Un primo aspetto del piano di riarmo su cui conviene soffermare l’attenzione riguarda la portata dei cambiamenti perseguiti dall’Unione europea. Nel libro bianco congiunto della Commissione europea e dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Preparati per il 2030 si afferma che l’Europa si trova di fronte ad un bivio fondamentale: da un lato, la consueta politica incrementale diretta ad un cauto adattamento alle nuove sfide; dall’altro, una decisione autonoma netta sul proprio futuro finalizzata ad assicurare ai cittadini europei condizioni di pace, democrazia e prosperità. Considerata l’urgenza di dover rispondere alle minacce esterne, la Commissione pare determinata ad imboccare la seconda strada, nella convinzione che la politica dei piccoli passi non sia più un lusso che i governi europei si possano permettere.
Se però si passa dal piano delle declamazioni a quello delle iniziative più concrete, si ha subito la netta sensazione che anche questa volta il cambiamento epocale nell’Unione può attendere. Per quanto la Commissione si sforzi di affermare l’autonomia strategica europea, all’atto pratico il libro bianco ribadisce l’importanza decisiva della NATO, circostanza che realisticamente segnala che almeno per ora e nel prossimo futuro i paesi europei non potranno prescindere dall’apporto decisivo degli USA. Proprio questa circostanza permette, a torto o a ragione, alle istituzioni europee di continuare a glissare sul tema della governance della difesa europea. È risaputo infatti che l’assetto delineato dal Trattato di Lisbona è inadeguato ad affrontare una guerra ad alta intensità, essendo stato concepito essenzialmente per condurre operazioni di peace-keeping o di prevenzione dei conflitti all’interno dell’alleanza atlantica (cfr. artt. 42(1)-43 TUE). Nonostante questo, nel libro bianco ci si guarda bene dal segnalare l’esigenza di riformare i Trattati per rafforzare quella struttura decisionale. È un arcinoto che nella fase attuale mettere mano ai trattati è un tabù. Pesa il fallimento del 2005, ma anche la mancanza di un consenso generale in favore di una tale riforma: è evidente, infatti, che la creazione di una struttura di comando militare costituirebbe un passo decisivo in direzione della creazione di un vero e proprio stato europeo. Si comprende allora perché su un punto così cruciale Commissione e Consiglio europeo siano estremamente reticenti. Nondimeno, se la minaccia a cui siamo sottoposti è concreta, non resta che ammettere che l’Unione continua ad essere impreparata. Qualora la protezione offerta dall’articolo 5 della NATO dovesse effettivamente vacillare, non resterà che rivolgersi alla corrispondente norma dell’Unione (l’art. 42(7) TUE). Ma a quel punto ci si accorgerà che qualsiasi risposta collettiva richiede un voto all’unanimità (art. 42(4) TUE), con buona pace del riarmo e del suo potenziale deterrente.
Un sentiero ben battuto
In realtà, lungi dall’avventurarsi in territori sconosciuti, la strategia predisposta dall’Unione si sviluppa in piena continuità con gli obiettivi strategici perseguiti e gli strumenti impiegati nel recente passato. Nel breve termine, è confermato il sostegno all’Ucraina avviato con i piani ASAP (fornitura di munizioni, armi e equipaggiamento militare) e EUMAM (addestramento delle forze armate). Nel medio-lungo termine, l’Unione crea le condizioni perché i propri stati membri possano “migliorare le [proprie] capacità militari” (art. 42(3) TUE). A tal riguardo, la maggior parte dello sforzo economico spetterà ai governi nazionali, chiamati ad incrementare gli investimenti e la spesa corrente in una serie di ambiti prioritari correlati alla guerra ad alta intensità.
L’Unione intende contribuire a questo progetto anzitutto attraverso la predisposizione di finanziamenti agevolati diretti a favorire il coordinamento e l’interoperabilità dei sistemi di difesa nazionali, ma anche attraverso una decisa semplificazione delle norme europee che ostacolano la mobilità di truppe nel territorio europeo. Le iniziative previste a questo riguardo sono varie. Non tutte sono state ancora tradotte in testi normativi e la definizione di alcuni obiettivi rimane allo stato attuale piuttosto vaga.
È soprattutto la dimensione riguardante gli investimenti nella difesa quella che assume un carattere prioritario ed è su questa che vale la pena approfondire l’analisi. Lo schema di intervento generale ricalca in larga misura la strategia seguita nella risposta all’emergenza Covid-19: da un lato, si allentano (selettivamente) le regole fiscali in modo da incoraggiare l’investimento pubblico nazionale in spese militari; dall’altro, si predispone uno strumento europeo di assistenza finanziaria agli stati membri. Questo ultimo si propone il conseguimento di almeno due obiettivi. Il primo è quello di contribuire al coordinamento della spesa degli stati. Il secondo prevede l’introduzione di un elemento di redistribuzione in modo da evitare che gli investimenti siano appannaggio solo degli stati membri che dispongono di una situazione finanziaria favorevole.
La seconda parte del post uscirà martedì 27 maggio 2025.
Commenti