Sul “pacchetto” sicurezza: i principi e le regole costituzionali sulla produzione normativa sono nella disponibilità della maggioranza?

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di Maria Pia Iadicicco

Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli

1. Di sicurezza si discute molto tra i giuristi da tempo immemore e per molteplici ragioni, a cominciare da quelle fondative e giustificative della concentrazione del potere sovrano e dell’uso della forza. Non è su tali aspetti teorici che si concentrerà questo intervento; accogliendo l’invito al dibattito lanciato da Giorgio Repetto nel suo Editoriale, si intende riflettere sul perché tante critiche hanno investito, nel più recente periodo, il c.d. pacchetto sicurezza. L’attenzione sarà focalizzata sulle forme e sui procedimenti decisionali assunti dalle istituzioni politiche nel caso di specie per la regolazione di un ambito, quale quello della sicurezza, già connotato da non marginali ambiguità ed incertezze, acuite pure dalla sua continua e talvolta retorica evocazione.

Al riguardo e in prima battuta si può rilevare che se oggi “grande è la confusione sotto il cielo”, ciò dipende anche dalle mutevoli forme della regolazione giuridica. In effetti, prima dell’approvazione da parte del Governo del recente decreto sicurezza, d.l. n. 48/2025, convertito in legge n. 80/2025, l’impegno delle istituzioni politiche e l’attenzione dei giuristi sul tema erano state catalizzate da un disegno di legge di iniziativa governativa, già da tempo all’esame del Parlamento e recante un contenuto in larga parte analogo a quello del successivo d.l. Questo travaso di contenuti analoghi in contenitori (“pacchetti”) diversi ed il mutamento di forma degli atti-fonte del diritto oggettivo hanno riproposto, se non accentuato, profili critici di tematiche già largamente dibattute nella dottrina costituzionalistica. Tralasciando la questione, pur di sicuro interesse, sull’estensione dei poteri del Presidente della Repubblica esercitabili  in occasione dell’emanazione dei d.l. e della promulgazione delle leggi di conversione, quanto si vuole verificare è se in questa complessa vicenda possano ravvisarsi deviazioni delle forme e dei procedimenti decisionali, che mettono a rischio la tenuta e la prescrittività della Costituzione sul dirimente piano delle forme delle decisioni politico-normative.

Attesa la complessità di questa ipotesi di lavoro, anticipo sin d’ora la tesi che proverò ad argomentare nel prosieguo: la sempre più ricorrente elusione delle forme precostituite della produzione normativa assume un significato profondo e molto rilevante perché tocca in ultima istanza le fondamenta del nostro ordinamento costituzionale e non soltanto gli equilibri della forma di governo.

Focalizzarsi sugli aspetti formali del caso non significa trascurare il contenuto normativo recato dagli atti richiamati, e ciò anzitutto per l’inscindibile connessione tra forma e sostanza delle decisioni normative, che è uno dei modi attraverso i quali la dottrina mette a tema l’intima correlazione tra forma di governo e forma di stato e come i mutamenti della prima necessariamente incidano sulla seconda. Sempre in ragione dell’appena evocata connessione tra forma e sostanza, non si possono tacere i molti dubbi di compatibilità costituzionale avanzati tanto nei riguardi del d.l. n. 48/2025, quanto del precedente disegno di legge. Simili rilievi sono talvolta frettolosamente liquidati, denunciandone l’approccio “ideologico”, il fatto cioè che essi muovano da convinzioni politico-ideologiche di parte; sennonché, a mio avviso, proprio utilizzando questo argomento si finisce per toccare due punti nevralgici e centrali. Il primo è che la prevalenza solo di una tra le plurime, distinte e talvolta molto distanti, visioni politiche su alcuni temi è senz’altro legittima, ma condizionata dal rispetto di predeterminate forme che impongono (non consigliano) il confronto con altre visioni di parte. Il secondo è che dietro queste forme e i conseguenti passaggi procedurali si pone, non meno dei limiti sostanziali, una formidabile e davvero decisiva questione di democrazia, essendo il rispetto della forma giuridicamente regolata in Costituzione condizione di validità del diritto che ne scaturisce, in quanto attraverso essa si risale alla legittimazione e alla regolazione del potere politico. Dunque, se è vero com’è vero che la forma costituzionalmente predefinita ha per oggetto il potere, che fonda e limita in vista della garanzia di valori ideali, perde di consistenza ogni obiezione sul presunto carattere avalutativo e sulla neutralità ideologica dei discorsi attorno alla forma delle fonti; diversamente siamo al cospetto di quanto di più sostanziale e materiale si possa pensare.

2. Procedendo all’analisi dei profili formali del “pacchetto” sicurezza, ogni riflessione al riguardo potrebbe essere facilmente sintetizzata e chiusa facendo rinvio a note, consolidate e diffuse pratiche di predominio governativo nella produzione normativa. Non è affatto inedito, né ha uno specifico colore politico, il sempre più massiccio ricorso da parte del Governo allo strumento eccezionale del d.l. per l’attuazione del proprio programma, accompagnato da ulteriori pratiche distorsive che incidono su tempi e spazi del dibattito parlamentare. Di queste, nella vicenda qui in esame, se ne sono verificate molteplici: come oramai da decenni rilevato nei periodici Rapporti sulla legislazione (l’ultimo quello del 2024-2025), all’espansione numerica dei d.l. si è accompagnata un altrettanto marcata espansione contenutistica dei medesimi, talvolta già in origine disomogenei, talaltra a “disomogeneità sopravvenuta”, a seguito dell’approvazione di emendamenti disomogenei in sede di conversione in legge. Se ciò non è avvenuto nel caso di specie, è nondimeno conseguenza di un’altra ricorrente e patologica prassi: l’apposizione della questione di fiducia sull’articolo unico del d.d.l. di conversione, con conseguente reiezione di tutti gli emendamenti, avvenuta alla Camera dei deputati dopo la (parziale) discussione dei numerosi emendamenti presentati dalle opposizioni, e al Senato con un’accelerazione ancor più forte. Ed ancora, se ricorrentemente in passato è stata denunciata la violazione dell’art. 70 Cost. determinata dall’abusiva prassi del “monocameralismo alternato”, ovvero dell’esame di un d.d.l. da parte soltanto di un ramo del Parlamento, limitandosi l’altro a ratificare senza modifiche quanto approvato dal primo, adesso si è trattato di un vero e proprio voto bloccato, cioè della mera ratifica da parte di entrambe le camere del testo così come voluto dal Governo.

È già accaduto in passato che un d.l. sia stato pubblicato in Gazzetta ufficiale e presentato alle camere per la conversione dopo diversi giorni dalla sua adozione da parte del Consiglio dei Ministri e che in esso sia confluito il contenuto di un progetto di legge governativo già in fase avanzata di esame parlamentare. Sebbene in questi già discutibili precedenti quantomeno i d.d.l. di conversione erano stati presentati presso il ramo del Parlamento nel quale si stava da ultimo svolgendo l’esame dell’originario progetto, in ogni caso la “trasformazione” di un d.d.l. governativo in un d.l. finisce per incidere su tempi e spazi della discussione parlamentare.

I rilievi critici sulle forme e i procedimenti di approvazione del pacchetto sicurezza potrebbero proseguire oltre, individuando altre distorsioni verificatesi nel caso di specie, come pure in altri precedenti, il cui richiamo, è bene precisarlo, è qui operato con finalità tutt’altro che “assolutorie”. Come anticipato, quanto si intende dimostrare è che dalla deviazione delle forme predefinite in Costituzione per la decretazione d’urgenza e la legge di conversione derivano conseguenze di più ampio respiro e che il consolidamento di tali prassi distorsive non determina l’emersione di nuove regolarità, le quali, seppur non pienamente “in linea” con le prescrizioni costituzionali sulla produzione normativa, sarebbero comunque compatibili con la configurazione elastica e duttile della nostra forma di governo parlamentare, salvo, per questa via, ammettere una prevalenza del fatto sulle regole giuridiche relative al potere.

3. Dovendo necessariamente sintetizzare, si analizzeranno tre grandi questioni, da sempre al centro di approfondite riflessioni sulla decretazione d’urgenza, che rilevano anche nella vicenda in esame:

a. il controllo sui presupposti costituzionali di validità del decreto-legge;

b. le ricadute sul dibattito parlamentare derivanti dal ricorso alla decretazione d’urgenza;

c. la compatibilità con la riserva di legge in materia penale.

Sul primo punto, è utile richiamare un recente approdo della giurisprudenza costituzionale: nelle questioni decise con la sent. n. 146/2024, la Corte, chiamata a giudicare la legittimità di un d.l. per la violazione di plurimi parametri, ha ritenuto «prioritario, in ordine logico» l’esame della questione della ricorrenza dei presupposti costituzionali della straordinaria necessità ed urgenza, prima del vaglio sui contenuti dell’atto. Pur riconoscendo l’esistenza di un’ampia autonomia spettante al Governo a cominciare dalla scelta politica di ricorrere a tale strumento, la Corte ha rimarcato che ciò «non equivale … all’assenza di limiti costituzionali» e che il rispetto «di principi normativi e di regole giuridiche indisponibili da parte della maggioranza» è posta a garanzia dell’opzione costituzionale per la democrazia parlamentare e della tutela delle minoranze politiche. Si tratta pertanto di un assetto da preservare non in quanto fine a se stesso, ma quale proiezione formale di principi fondamentali di uno Stato costituzionale di diritto.

Anche nella precedente giurisprudenza, spesso ritenuta eccessivamente “timida”, era stato precisato che il ricorso al d.l. non può legittimamente fondarsi solo su una «apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza» (sent. n. 171/2007) e che uno degli indici idonei a rivelare la sussistenza delle condizioni di validità di un d.l. è la sua omogeneità.

Molti e fondati sono i dubbi che queste condizioni siano state soddisfatte dal d.l. n. 48/2025: non solo esso contiene norme eterogenee, tanto dal punto di vista oggettivo-materiale, quanto da quello finalistico-funzionale, ma nel Preambolo il Governo si è limitato ad enunciare in maniera assolutamente apodittica la ricorrenza, in alcuni ambiti, di non meglio precisati casi straordinari di necessità e di urgenza, in altri, della sola necessità ed urgenza.

Oltre all’evidente mancanza dei presupposti di validità del d.l., sindacabile da parte della Corte, più a monte si deve considerare che il ricorso a tale strumento ha ricadute sul ruolo del Parlamento. Infatti, la conversione in legge entro 60 giorni, pena la decadenza, non solo stringe le maglie del dibattito parlamentare in tempi ristretti, ma sottrae al Parlamento la scelta di “decidere su cosa decidere”, una riduzione, questa, che rileva nella vicenda qui in esame in termini ancor più drastici: per effetto dell’apposizione della questione di fiducia questa volta alle camere è stato sottratto non solo il tempo e lo spazio per una discussione effettiva «nel merito del testo» (sent. 146/24), ma complessivamente il potere di modificarlo, sicché esse si sono limitate alla mera ratifica di contenuti decisi altrove. Tale vanificazione del ruolo del Parlamento, se stigmatizzata finora dalla Corte costituzionale per rimarcare l’oggetto limitato della legge di conversione e i confini del potere emendativo, mostra plasticamente il suo grave portato proprio nel caso di apposizione della questione di fiducia sull’articolo unico del d.d.l. di conversione: in forza di questa combinazione il d.l. non solo si tramuta in un «atto di anticipazione legislativa» (Lavagna), nonché in un improprio “disegno di legge rinforzato” (Predieri), ma in una garanzia che il testo motorizzato (per richiamare ora Schmitt) non solo abbia una maggiore spinta, bensì la certezza di giungere al traguardo, salvo l’apertura di una crisi di Governo.

Siamo dunque al cospetto di una modificazione funzionale complessiva della decretazione d’urgenza, della quale è opportuno rimarcare non solo il fatto che essa si sia realizzata “a Costituzione invariata”, quanto che questo “mutamento informale” della “forma” costituzionale del d.l. ha conseguenze più profonde, le quali investono non solo la forma di governo parlamentare, ma tratti essenziali della forma di stato, della nostra democrazia costituzionale. Questo, che è molto più di un mero spunto, essendo il punto nodale, ci conduce a riprendere un altro grande dibattito dottrinale rinfocolato anche dal recente (e non unico) d.l. sicurezza: l’ammissibilità di decreti provvisori con forza di legge in materia penale, coperta da riserva di legge.

Alcuni tra i più autorevoli e classici studi sull’istituto della riserva di legge ne hanno evidenziato l’essenziale valenza democratica, insita nel collegamento tra sede della rappresentanza politica nazionale e forma dell’atto normativo, così riconoscendo nel suddetto istituto una riserva di organo. Facendo altresì leva sulla storica istanza garantistica della riserva di legge, altra dottrina ha ravvisato in essa un limite all’utilizzo della decretazione d’urgenza (Carlassare). Questa posizione non è stata fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale, la quale non ha mai negato l’idoneità degli atti aventi solo la forza e non la forma della legge a soddisfare le riserve di legge e ciò considerando l’identica sottoponibilità al giudizio di legittimità costituzionale, il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento e comunque l’intervento di quest’ultimo nella conversione in legge.

Sennonché tenuto conto di quanto dapprima evidenziato, ovvero il sostanziale svilimento del ruolo del Parlamento in occasione della conversione del decreto sicurezza e la non eccezionalità di quanto accaduto, la predicata equivalenza tra legge e d.l. ai fini del soddisfacimento delle riserve di legge si rivela estremamente problematica, specie in materia penale. Sebbene anche in quest’ambito la giurisprudenza costituzionale non abbia identificato in quell’istituto un limite al ricorso alla decretazione d’urgenza, la fungibilità delle leggi formali con i d.l. è stata consentita «purché nel rigoroso rispetto dei presupposti costituzionali ad essi inerenti» (sent. n. 330/96). Questa maggiore sensibilità della Corte per la riserva di legge in materia penale potrebbe spingere la stessa, ove adita a sindacare in via prioritaria i palesi vizi formali del d.l. n. 48/2025, a sanzionare il «costituzionalmente intollerabile» sacrificio che il Parlamento subisce a causa del mancato rispetto dei presupposti di cui all’art. 77 Cost. e di pratiche che trasfigurano la forma costituzionalmente prescritta per l’esercizio del potere, con conseguenze pregiudizievoli anche sulla certezza del diritto. Indubbiamente un simile esito avrebbe l’effetto di scaricare solo sull’organo della garanzia costituzionale il peso di una decisione politicamente non gradita, ma poiché si tratterebbe di una decisione che investe le forme e non il contenuto dell’atto dubitato,  si rivelerebbe una garanzia per tutti. Maggioranza politica di oggi, quelle di domani, allertate a non ripetere l’intollerabile “errore”, carico di sostanza, commesso più volte in passato: ritenere che le regole costituzionali sulla produzione normativa siano nella disponibilità della maggioranza.

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