Chiaroscuro: la tutela degli ecosistemi nel contesto del Green Deal

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di Edoardo Chiti

1. La salute degli ecosistemi sta al centro del Green Deal europeo. Nel disegno formalizzato dalla «Normativa europea sul clima», essa contribuisce a «mantenere, gestire e migliorare i pozzi naturali e a promuovere la biodiversità, contrastando nel contempo i cambiamenti climatici». Ecosistemi sani e in grado di erogare i propri servizi, in altri termini, sono essenziali per il raggiungimento del macro-obiettivo della neutralità climatica, che la Commissione ha fissato per l’Unione e i suoi Stati membri. Le foreste, ad esempio, possono e debbono assicurare la riduzione dei gas a effetto serra nell’atmosfera operando come pozzi di assorbimento, stoccaggio e sostituzione. Lo stesso vale per suoli, mari e molti altri ecosistemi.

In attuazione di questo disegno complessivo, la Commissione ha presentato, in poco più di un anno e mezzo, tre proposte normative. La prima è dedicata al ripristino della natura. La seconda e la terza al monitoraggio del suolo e delle foreste. Le ambizioni ecologiche della Commissione sono grandi. Ma il suo intervento regolatorio è all’altezza delle aspettative?

2. Sgombriamo il campo, anzitutto, da possibili equivoci: queste iniziative sono da accogliere con favore, qualunque sia il nostro giudizio complessivo sul Green Deal.

Il dibattito sul Green Deal si è ormai polarizzato. Per qualcuno, la strategia europea per la neutralità climatica è un esercizio di autoinganno delle istituzioni dell’Unione, se non addirittura un inganno intenzionale perpetrato dal mercato ai consumatori e ai cittadini attraverso istituzioni pubbliche compiacenti. Il Green Deal come il nuovo «oppio dei popoli», ha scritto il filosofo giapponese Kōhei Saitō: un irrealistico keynesianesimo verde, utile solo per lastricare di buone intenzioni la strada per l’estinzione. Per altri, invece, è la strategia che può portare alla costruzione di una nuova società europea, più «giusta e prospera», efficiente sotto il profilo delle risorse e fondata su una recuperata armonia con la natura. È questa la prospettiva della Commissione, presentata con il linguaggio degli atti fondativi del processo di integrazione europea.

Il nodo sul quale si gioca la polarizzazione è – inevitabilmente – la promessa di una crescita economica verde, da realizzare attraverso l’innovazione tecnologica, una rinnovata politica industriale e una politica fiscale espansiva. Dal punto di vista dei critici radicali, il piano di absolute decoupling, di dissociazione della crescita economica dall’uso delle risorse, con una riduzione in termini assoluti delle emissioni totali di gas a effetto serra, non è irrealistico in sé. È impossibile, però, nei tempi immaginati dalla Commissione: nell’orizzonte temporale del 2050, la crescita economica non potrà che portare a ulteriori emissioni; e l’unica vera soluzione è il rallentamento della crescita economica. La prospettiva opposta, invece, collega al decoupling una serie di effetti positivi, la cui realizzazione passa attraverso strumenti quali le tecnologie di risparmio energetico, le auto ibride, i prodotti eco-compatibili e i servizi di digitalizzazione.

Nonostante la loro distanza, in ogni caso, entrambe le posizioni convergono su un punto di fondo: la tutela degli ecosistemi è un elemento essenziale di ogni agenda politica contemporanea. Nella prospettiva della Commissione, come si è detto, il ripristino degli ecosistemi è necessario per garantire l’assorbimento di gas a effetto serra: la neutralità climatica non è raggiunta solo attraverso soluzioni tecnologiche, come quelle di cattura e stoccaggio del carbonio; passa anche dalla capacità degli ecosistemi di erogare in modo continuativo i propri servizi. Ma lo stesso vale per il punto di vista opposto: la biodiversità garantita da ecosistemi in salute è uno dei nove «confini planetari» che occorre rispettare. E qualunque iniziativa vada nella direzione di un ripristino della funzionalità degli ecosistemi contribuisce a sostenere la resilienza del pianeta.

3. Se è difficile dirsi pregiudizialmente contrari alle iniziative della Commissione a tutela degli ecosistemi, quale giudizio specifico se ne può dare? Un giudizio in chiaroscuro, verrebbe da dire. Perché il disegno regolatorio della Commissione presenta alcuni punti di forza e altri di debolezza.

Partiamo dai punti di forza.

Sono senz’altro condivisibili, per cominciare, gli obiettivi perseguiti. La Commissione compie una scelta chiara e prende a prestito dall’ecologia degli ecosistemi la metafora del «ripristino della natura»: è questo l’obiettivo principale della regolazione ecologica che l’Unione viene sviluppando. Ma la Commissione prende anche atto, in modo del tutto pragmatico, che per arrivare a questo risultato occorre svolgere una serie di attività strumentali. In particolare, è necessario colmare il deficit di conoscenza rispetto ad alcune importanti famiglie di ecosistemi, le foreste e i suoli, per i quali occorre istituire sistemi europei di raccolta dei dati, che vadano oltre gli strumenti di monitoraggio nazionale.

È certamente ragionevole, in secondo luogo, la considerazione allo stesso tempo unitaria e composita della «natura europea». Il ripristino della natura è un obiettivo definito in termini generali. Ad esso si accompagnano, però, vari obiettivi specifici, relativi a singoli ecosistemi, quali quelli marini, forestali, agricoli e urbani. Il disegno generale e quello relativo ai singoli ecosistemi acquistano senso l’uno rispetto all’altro. Il recupero della piena funzionalità di specifici ecosistemi contribuisce al ripristino dell’intero spazio naturale europeo.

Sono coerenti con questi obiettivi, in terzo luogo, gli strumenti amministrativi previsti per il loro raggiungimento. Lo strumento principale è la pianificazione, qui intesa come strumento relativo all’attività delle amministrazioni, invece che dei privati. Come nella Normativa europea sul clima, infatti, anche nella proposta di regolamento sul ripristino della natura la tecnica regolatoria utilizzata prevede, da un lato, l’individuazione di obiettivi da parte delle istituzioni dell’Unione, dall’altro, l’adozione di piani nazionali volti alla individuazione delle misure attraverso le quali raggiungere tali obiettivi. Le misure possono spaziare dalla conservazione al vero e proprio ripristino, ma sono sempre volte a garantire la capacità degli ecosistemi di fornire i propri servizi. Per questo richiedono finanziamenti e debbono essere elaborate in funzione delle specifiche condizioni locali. Lo stesso regolamento europeo ne offre, in uno degli allegati, alcuni esempi: tra questi, le misure volte a migliorare le condizioni idrologiche, il ripristino dei processi di sedimentazione naturale, la diversificazione della struttura forestale, la rigenerazione e la successione naturali delle specie arboree. Si tratta di una tecnica regolatoria condivisibile: riconosce l’esigenza di tenere conto dei numerosi interessi in gioco, oltre che l’opportunità che questo esercizio sia svolto dalle autorità nazionali, seppure coordinate tra loro. Lo stesso vale per la scelta di istituire meccanismi di monitoraggio relativi agli ecosistemi forestali e ai suoli, senz’altro funzionali a superare l’attuale carenza di conoscenze e a gettare le basi per strategie efficaci di gestione degli ecosistemi.

A questi punti di forza, tuttavia, si accompagnano anche vari elementi di debolezza.

Due hanno particolare importanza. Il primo è il limitato contenuto in senso proprio ecologico delle tre proposte. Queste ultime si muovono nell’orizzonte dei concetti fondativi della ecologia degli ecosistemi, dal ripristino degli ecosistemi alla erogazione dei servizi ecosistemici. Eppure, sono molto caute nel formalizzare specifici principi ecologici relativi alla gestione degli ecosistemi. Tali principi ecologici entrano nel quadro regolatorio sotto forma di indicatori da utilizzare con riferimento ai singoli ecosistemi. Ma sono del tutto assenti tanto nella disciplina dei piani nazionali, nei quali saranno previsti nei modi che ciascuno Stato membro riterrà preferibile, quanto nella regolazione dei meccanismi di monitoraggio delle foreste e dei suoli.

Il secondo elemento di debolezza riguarda gli schemi di attuazione amministrativa. Ad esempio, i piani nazionali si aggiungono a numerosi altri piani già previsti da altre normative europee e nazionali ed esemplificati dai piani di adattamento ai cambiamenti climatici e dai piani per la transizione ecologica. Il rischio è quello di piani poco capaci di dialogare tra loro all’interno dell’ordinamento nazionale e ancor meno capaci di combinarsi con gli omologhi esercizi di pianificazione degli altri Stati membri. Il disegno previsto dalla Commissione, poi, richiede capacità amministrative forti, che non possono essere sempre date per scontate. Nel caso del nostro paese, ad esempio, l’attuazione dei piani è affidata a un’organizzazione debole, il cui perno è rappresentato dal Comitato interministeriale per la transizione ecologica (CITE), istituito nel 2021 ma sin qui poco in grado di operare come cabina di regia.

4. Come riorientare le proposte della Commissione a tutela della salute degli ecosistemi? Le direzioni nelle quali occorre lavorare sono due, tra loro strettamente collegate.

La prima direzione è quella strettamente ecologica. La disciplina in corso di elaborazione si limita a girare intorno alla sostanza dei principi ecologici, lasciando questi ultimi in sostanza indeterminati e preferendo svilupparsi sul piano degli strumenti istituzionali. Un approccio poco sorprendente, si dirà. Eppure elusivo e in definitiva deludente, data l’imprescindibile sostanza ecologica di questi interventi normativi. Per correggere questa impostazione, occorre un uso più preciso degli indicatori, dai quali dipende l’attuazione della disciplina: ad esempio, è necessario prevedere indicatori non solo per alcuni ecosistemi, ma per tutti, inclusi quelli marini, e fare sempre riferimento a indicatori standardizzati. Occorre, poi, sviluppare e potenziare l’approccio ecosistemico delle varie normative, ad esempio introducendo principi ecologici che permettano di tracciare l’evoluzione degli ecosistemi, predirne le crisi e impedirne il collasso: come osservato da Daniel Hering e altri ecologi in un recente policy forum di Science, questo approccio resta marginale nell’attuazione della normativa sul ripristino della natura, dove prevale l’attenzione a singole specie e habitat. Occorre, ancora, istituire un organismo tecnico-scientifico capace di introdurre nel processo decisionale di elaborazione delle misure di ripristino degli ecosistemi lo specifico punto di vista dell’ecologia applicata, senza il quale le proposte delle istituzioni politico-amministrative rischiano di essere addirittura controproducenti.

La seconda direzione è quella strettamente amministrativa, di irrobustimento del disegno organizzativo e procedurale dal quale dipende l’effettività del processo di attuazione delle tre normative. I meccanismi di monitoraggio possono e debbono essere rafforzati, prevedendo procedure composite di costruzione dell’informazione, obblighi organizzativi e strumenti di coordinamento. La storia dell’integrazione amministrativa europea, e in particolare l’esperienza delle agenzie responsabili della produzione di informazione di qualità, offre molti spunti utili. Senza una significativa istituzionalizzazione dei meccanismi di monitoraggio dei suoli e delle foreste, è impensabile produrre in tempi relativamente stretti l’informazione necessaria per una efficace tutela degli ecosistemi. Analogamente, l’elaborazione dei piani nazionali per il ripristino deve essere affidata a procedure più stringenti di quelle attuali. E di nuovo la storia dell’integrazione amministrativa, soprattutto quella recente, offre molti esempi che potrebbero operare come fonte di ispirazione per un miglioramento dell’attuale proposta normativa. È del tutto irrealistico attendersi che le regole previste dalla Commissione producano piani nazionali efficaci.

Contenuti ecologici più puntuali e un disegno amministrativo più stringente, dunque. È da qui che passa la ridefinizione delle tre proposte della Commissione. Vale la pena lavorare in questa direzione, per definire un quadro regolatorio ecologico realmente in grado di governare l’azione europea dei prossimi anni.

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