Disinformazione contro Costituzionalismo. Qualche domanda a Silvia Sassi di Leonardo Ferrara

image_pdfimage_print

Il libro di Silvia Sassi, uscito alcuni mesi fa per i tipi dell’Editoriale Scientifica, pone all’attenzione del lettore il tema dell’informazione al tempo dell’on line, visto dalla prospettiva, riprendendo la quarta di copertina, non “[de]la libertà di informazione ma [de]l suo contrario: la disinformazione”, deflagrata sotto nuove forme nell’era del digitale fino ad assumere il ruolo di antagonista del costituzionalismo. Dopo l’avvento di Internet e la connessa circolazione “anarchica e globale” delle notizie, al pluralismo dell’offerta informativa si è, infatti, accompagnato il suo “rovescio”, costituito dalla diffusione di fake news di varia “tipologia”, i cui effetti, esemplificando, vanno dalla lesione dell’onore e della reputazione di un individuo alla “destabilizzazione del sistema del consenso politico”, dal “disorientamento delle scelte commerciali” all’istigazione all’odio. Senza tralasciare la questione del rapporto tra la libertà di informazione e la libertà di disinformazione (riassunta quest’ultima nella metafora del Market Place of Ideas) e cercando piuttosto una “concettualizzazione” del fenomeno della disinformazione on line, il saggio si muove alla ricerca di “tutte le misure giuridiche, e non, adottate contro” la circolazione di notizie false, che siano produttive di effetti dannosi per l’individuo e/o la collettività. Ne parliamo con l’Autrice, alla quale abbiamo rivolto qualche domanda per addentrarci nella sua analisi.

D) Silvia, non riesco a non partire dalla tragica situazione che stiamo vivendo ai confini dell’Europa politica: alludo ovviamente alla guerra in Ucraina. Se la disinformazione trova tra le sue cause una asimmetria informativa, qui la disinformazione è direttamente figlia delle asimmetrie tra i regimi (o le forme di Stato) che esistono nel mondo. Nel tuo libro hai dedicato grande attenzione alla regolamentazione dell’informazione in rete negli Stati totalitari o comunque autoritari. Non potevi però immaginare, tu come ogni altro, che la Russia, dotatasi nel 2019 di una legge sulla sovranità digitale e l’accesso a internet, arrivasse oggi, per un verso, a cavalcare la disinformazione, rovesciando la narrazione su quella che è una vera e propria invasione armata in violazione del diritto internazionale, per altro verso, a impedire l’accesso al www (o a una parte significativa di esso) ai cittadini russi, obbligando anche i siti russi a trasferirsi su server che si trovino fisicamente nel paese.

R) Sono d’accordo con la tua affermazione, ovvero che la disinformazione è anche figlia delle asimmetrie che esistono tra le forme di Stato nel mondo. Se ripercorriamo la storia della disinformazione fino ad arrivare ai giorni nostri, essa si sviluppa e si afferma in particolare in quei regimi di stampo eminentemente ideologico. Come ho precisato nel mio libro, la дезинформация (disinformazione) è stata sistematizzata per la prima volta nel 1923 come “arma da guerra” da una unità speciale della GPU; ed è stata impiegata anche dai regimi nazisti e fascisti. Oggigiorno, nell’epoca del digitale, il blocco o l’interruzione della connettività a Internet o dell’accesso più in generale alle telecomunicazioni sono ulteriori declinazioni delle misure adottate dagli Stati totalitari o autoritari per conculcare il pluralismo delle libere opinioni. Così come severa, sempre in questi tipi di regimi, è la censura delle espressioni on-line, effettuata per lo più con un processo limitato o nullo e senza alcun ordine da parte di un Tribunale. La Repubblica popolare cinese pionieristicamente si è spinta oltre. Per mantenere il controllo sociale e politico sulla popolazione, ha creato nel tempo network digitali esclusivamente cinesi, con caratteristiche simili a quelli occidentali ma con severe limitazioni quanto alla circolazione – in uscita e in entrata – delle informazioni. Queste informazioni sono rigidamente filtrate dai media ufficiali autorizzati dal Partito, ben attenti a rilasciare solo notizie gradite al regime, e censurando severamente quelle che potrebbero nuocere allo stesso. Dato il contesto, è ovvio il dubbio sulla certezza o meno delle informazioni diffuse dai siti cinesi nel resto del mondo. Peraltro, Pechino, agendo in questo modo, ha determinato un nuovo concetto di “sovranità digitale” laddove fa coincidere lo spazio digitale con il proprio territorio fisico, rivendicando sullo stesso un’autorità esclusiva, proprio come avviene per il territorio che appartiene alla Nazione. Questo atteggiamento non è rimasto isolato, Iran in primis, e Russia ora. Sicché, un sistema che voglia davvero proteggere la libertà di espressione deve impegnarsi ad accettare anche le falsità, a meno che l’autorità pubblica non sia in grado di dimostrare che le stesse siano diffuse con l’intenzione di provocare un serio danno ai valori democratici nel loro complesso. Laddove invece l’informazione è unica, perché la verità è solo nelle mani di chi decide, ossia del regime, non vi è democrazia, perché non è detto che i giudizi del governo su ciò che è vero e su ciò che è falso siano affidabili.

D) Nella tua analisi un posto fondamentale è riservato all’Unione europea. Partendo dall’idea che la ragion d’essere del costituzionalismo è la limitazione del potere, ritieni che possa essere efficace la co-regolamentazione e ancor più la mera promozione dell’elaborazione di codici di condotta da parte dei gatekeeper? Al tempo stesso ti chiedo: si può affrontare il problema della lotta alla disinformazione senza considerare quella allo strapotere privato dei giganti del web, il quale direttamente attenta alla privacy degli individui e financo alla loro libertà di autodeterminazione?

R) Tra le diverse modalità adottate dall’Unione europea per combattere la disinformazione, quella co-regolativa mi pare una buona soluzione. Perché, per il tramite di strumenti di soft law, quali sono i codici di condotta, essa si basa su un compromesso tra i gatekeepers, che è tuttavia promosso, orientato e monitorato dalle istituzioni europee. Questo approccio ha offerto per la prima volta un ordine, un quadro comune di regole attorno alle quali si è istituita una embrionale collaborazione con le piattaforme online attive nell’UE; condizione imprescindibile per poter controllare uno spazio che è indubbiamente ancora governato da aziende il cui fatturato è pari o superiore al PIL di alcuni Stati. Sebbene i risultati attesi siano ancora lungi dall’essere raggiunti, il mio giudizio rimane dunque sostanzialmente positivo. Attraverso questa strategia si stanno inducendo i social networks a dovere rendere sempre più conto del loro operato e del loro ruolo svolto nella lotta alla disinformazione. I recenti “orientamenti sul rafforzamento del Codice di buone pratiche sulla disinformazione” elaborati nel maggio del 2021 dalla Commissione europea vanno proprio in questa direzione. Laddove, in particolare, l’obiettivo di creare un ambiente on-line più trasparente, sicuro e affidabile viene ad essere perseguito attraverso un “meccanismo permanente” ma flessibile, capace cioè di adeguarsi al progressivo e incessante sviluppo tecnologico. Ritengo che una delle soluzioni per proteggere effettivamente l’esercizio della libertà di espressione, così come i diritti nella loro generalità, nello spazio digitale sia quello di rafforzare in modo organico – non dunque episodico e frammentato – la cooperazione tra i poteri pubblici e quelli privati con strumenti innovativi. D’altronde se è vero, come una corrente di pensiero sostiene, che le tecnologie digitali sono “re-ontologizzanti, perché “modificano la natura intrinseca di quello che toccano”, è inevitabile che la loro ricaduta sul diritto costituzionale impone alla autorità pubblica un nuovo atteggiamento. Un atteggiamento che richiede una trasformazione, un adattamento e una ristrutturazione del modo di creare il diritto, e quindi di concepirlo.

D) Restando all’Unione europea, puoi raccontarci quale è lo stato della proposta di regolamento sui servizi digitali? Nondimeno, come valuti il Digital services act?  In particolare, il regolamento pone secondo te un problema dal punto di vista del principio di legalità, nella misura in cui prevede la rimozione di contenuti nocivi ma non illegali, così come la sostituzione della rule of law con standard definiti da soggetti privati?

R) Anche il Digital Service Act è un altro strumento – questa volta di natura hard – utilizzato dall’Unione europea per contrastare, sebbene indirettamente, la disinformazione. Più precisamente questa proposta di regolamento pone in capo alle piattaforme di dimensioni molto grandi l’obbligo di gestire, individuare, analizzare e valutare “rischi sistemici” derivanti dal funzionamento e dall’uso dei loro servizi o connessi a tale uso e funzionamento nell’Unione. Tra questi rischi vi sono quelli che potrebbero comportare effetti negativi sull’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui la libertà di espressione e di informazione, e quelli generati dalla manipolazione intenzionale del servizio, anche mediante un uso non autentico o uno sfruttamento automatizzato del servizio, con ripercussioni negative, effettive o prevedibili, sulla tutela della salute pubblica, del dibattito civico o con effetti reali o prevedibili sui processi elettorali e sulla sicurezza pubblica.  Nel caso in cui le grandi piattaforme individuino uno dei rischi sopra detti, esse hanno l’obbligo di adottare una serie di misure che in modo ragionevole, proporzionale ed efficace possano attenuarli. Tra gli strumenti proposti a tal fine vi sono quelli, ad esempio, di adeguare i sistemi di moderazione dei contenuti o di raccomandazione, ovvero i loro processi decisionali, le caratteristiche o il funzionamento dei loro servizi, o le loro condizioni generali, così come anche di rafforzare i processi interni o di vigilanza sulle loro attività nel rilevamento di questi rischi. La conformità ai succitati obblighi viene valutata annualmente da audit esterni e indipendenti e gestita da uno o più responsabili nominati dalle stesse piattaforme. Inoltre, per un controllo più stringente e calendarizzato delle attività svolte dalle piattaforme di grande dimensione sono previsti numerosi altri obblighi quanto alla condivisione dei loro dati e a una loro comunicazione trasparente. Infine, per contribuire alla corretta applicazione delle norme previste, la proposta di regolamento promuove l’elaborazione di codici di condotta, quali espressioni di protocolli di crisi, che affrontino situazioni straordinarie che incidono sulla sicurezza o sulla salute pubblica. Da segnalare che tutte queste soluzioni si sviluppano secondo una cooperazione trasversale tra soggetti privati, soggetti pubblici ed enti del terzo settore inserita in una logica di governance di natura transnazionale, la cui cabina di regia è tenuta sempre più strettamente nelle mani dell’autorità pubblica.

Ora, alla luce di quanto appena detto, questa proposta non mi sembra dunque possa porre problemi sotto il profilo del principio di legalità. Anzi intravedo, nel limite del possibile, aspetti positivi.   Anzitutto, il fatto che si vuole utilizzare la fonte regolamentare per disciplinare la questione in essere è indice dell’obiettivo che si intende perseguire: accrescere e uniformare le responsabilità dei prestatori di servizi digitali, rafforzando anche il controllo sulle politiche di contenuto delle piattaforme on-line nell’UE, per assicurare certezza giuridica e sicurezza nell’uso delle tecnologie anche in termini di rispetto dei diritti fondamentali. In secondo luogo, in questa proposta si coglie un approccio al digitale di natura, per così dire, antropologica, che vuole anteporre l’uomo alla macchina (algoritmica). Infine, e a cascata, è degno di nota anche il fatto di aver individuato il modo attraverso cui valutare i “rischi” e calcolare i “danni” che l’impiego di servizi digitali può provocare sui diritti fondamentali.

D) Silvia, dalle pagine del tuo libro emerge in maniera chiara e sofisticata che antagonista del costituzionalismo è tanto la disinformazione che la sua lotta. Dove si trova il punto di equilibrio rispetto all’ingerenza nella libertà di espressione del pensiero? E, a tuo avviso, dove si trova nella nostra carta costituzionale il fondamento della limitazione?

R) Al pari di altri diritti, la libertà di espressione del pensiero non è esercitabile in senso assoluto. Tutti gli Stati liberal-democratici, seppure nella loro diversità, ammettono restrizioni all’esercizio della libertà di espressione purché disciplinate espressamente dalla legge e/o comunque necessarie a tutelare la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, l’ordine pubblico e la salute e il buon costume. D’altronde − come icasticamente ha affermato la Corte costituzionale italiana nella sentenza n. 1/1956 −, «il concetto di limite è insito nello stesso concetto di diritto» affinché si possa godere di un’«ordinata convivenza pacifica». Il punto di equilibrio si trova certamente nel cuore della Costituzione di ogni Stato. E per la Costituzione italiana questo punto di equilibrio si trova negli articoli 2 e 21.

D) Consapevole che la regolamentazione della disinformazione on line è “irta di ostacoli”, non ti sei però fermata a una ricognizione delle misure adottate dai diversi attori in giuoco, ma ti sei spinta a riflettere sui modelli adottabili nel prossimo futuro. Vuoi parlarcene? Laddove, poi, in particolare immagini di “centralizzare negli organi giurisdizionali (magari con sezioni specializzate), non dunque in vari organismi di natura amministrativa, il potere di richiesta di rimozione di contenuti alle aziende digitali”, sei consapevole di andare coraggiosamente in controtendenza?

R) Il fenomeno della disinformazione è tanto complicato quanto pericoloso nel suo contrasto, perché antagonista della libertà di pensiero e quindi dei cardini della democrazia. Nel mio libro ho passato in rassegna le misure, o le proposte di misure, adottate contro la disinformazione on-line, dimostrando quanto esse siano ancora limitate e controverse. Al punto da poter sostenere che, per ora, la lotta contro la disinformazione è combattuta ma non vinta. Siamo agli albori di una battaglia che è alquanto perigliosa perché, ripeto, la posta in gioco è la tutela della libertà della manifestazione del pensiero, architrave di ogni ordinamento democratico. Ciò però non deve esimerci dal trovare altre soluzioni che devono tenere conto del contesto digitale nel quale questi problemi si inseriscono. Ad esempio, una regolamentazione flessibile, che si adatti ai molteplici cambiamenti dati dall’incessante sviluppo tecnologico, a fronte di una legislazione rigida, permetterebbe di sottrarre alle fattispecie giuridiche che si affacciano una regolamentazione liberticida (T.E. Frosini). Di contro, necessaria si rileva una disciplina che configuri e definisca chiaramente i concetti chiave in tale materia – quali, ad es., quelli della disinformazione e/o dei comportamenti manipolatori –, quanto meno per elaborare attorno a siffatti concetti un quadro organico di norme non tanto e solo per reprimere reati e crimini quanto piuttosto per attribuire la cabina di regia della disinformazione all’autorità pubblica e ai suoi organi di controllo, a tutela della democrazia. E tra questi ultimi, come tu ben hai ricordato, vi potrebbe essere la possibilità, a livello nazionale, di ricorrere a organi giurisdizionali (magari con sezioni specializzate) con al loro attivo mezzi procedurali molto rapidi. Ma, ripeto, questa è una tra le molteplici soluzioni da porre all’attenzione dei legislatori nazionali. Come a dire: “purché si muova…”.

Autori

Una risposta

  1. Eduardo Esteva Gallicchio ha detto:

    Diálogo muy interesante sobre tema relevante y actual.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Translate »