I giuristi e l’Europa. Considerazioni a margine di un libro di Aldo Sandulli

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di Marco Dani

Il presente contributo costituisce una rielaborazione dell’introduzione al seminario “I giuristi e l’Europa”, tenutosi il 24 giugno 2021 via Zoom. La registrazione audio-video del seminario è disponibile al seguente LINK. Pubblicheremo a breve anche la seconda di introduzione di Bruno Tonoletti.


Il ruolo del diritto in Europa è un libro che da tempo avevo adocchiato e che, al momento della lettura, mi ha visto spesso annuire, in alcuni passaggi scuotere la testa, in altri ancora fermarmi per riflettere. Insomma, si tratta di un libro che ha suscitato in me sentimenti contrastanti, una complessità che non sono sicuro di aver risolto. In questo intervento, vorrei provare ad impostare un dialogo con il testo, enucleando le tesi che più mi hanno indotto a riflettere e, lo anticipo da subito, a mantenere prudenzialmente una certa distanza dalle tesi di Aldo Sandulli. Le enuncio sinteticamente:

1) Il ruolo del diritto come scienza sociale che dovrebbe contribuire in maniera determinante a riequilibrare in Europa una situazione istituzionale complessiva caratterizzata dal predominio (se non dalla prevaricazione) dell’economia sul diritto;

2) La necessità di un ritorno al diritto, ovvero del superamento di quello che Sandulli con un’espressione molto efficace definisce l’ “uso infrastrutturale” del diritto. In Europa il diritto dovrebbe cessare di occupare una posizione ancillare all’economia; il giurista dovrebbe ritornare a svolgere quel ruolo di solista che ha svolto con successo in altre epoche storiche;

3) Il ritorno del diritto richiama il giurista ad un ruolo militante, ovvero ad un impegno per la costruzione di un nuovo ordine europeo fondato sulle radici greco-romane ed illuministe piuttosto che sul servizio ai mercati e all’economia.

Prima di proporre le mie osservazioni rispetto a queste tesi, credo sia opportuno chiarire in maniera estremamente succinta il contesto all’interno del quale ci troviamo ad affrontare questi temi. A questo riguardo condivido, seppur con le precisazioni che fra un attimo enuncerò, la ricostruzione proposta da Sandulli; è invece sulle proposte avanzate nel libro che mantengo una serie di riserve, in quanto mi sembrano proposte che si pongono in continuità con tentativi già sperimentati e falliti in passato. Insomma, si tratta di proposte che, temo, possano condurci (o trattenerci) nel vicolo cieco in cui è andato ad infilarsi il processo di integrazione europea, con esiti nefasti non solo per il diritto, ma più in generale per la qualità della vita civile in Europa.

Veniamo allora alla diagnosi condivisa: Sandulli osserva criticamente lo stato di crisi dell’UE e lo riconduce, correttamente, a quella che Edmondo Mostacci ha definito con espressione efficace “la torsione neoliberale” del diritto dell’Unione. Si tratta di un processo iniziato alla fine degli anni ’70 in concomitanza con l’ascesa di Thatcher e Reagan e che ha investito anche l’UE, determinando, secondo Sandulli, un disequilibrio tra economia, diritto e politica. Mentre la prima (l’economia) avrebbe assunto una posizione prevalente, diritto e politica sarebbero attualmente incapaci di esprimersi in modo autonomo e, per quanto concerne il diritto, a far valere la propria capacità conformativa e trasformativa.

Prima della torsione in senso neoliberale, Sandulli ci lascia capire (perché la trattazione di questa parte mi è parsa meno sviluppata di altre parti del lavoro) che esisteva una situazione di equilibrio, riconducibile al modello di economia sociale di mercato. A questo riguardo esplicito subito una prima perplessità: l’affermazione dell’economia sociale di mercato nel secondo dopoguerra è una vicenda che riguarda essenzialmente la Germania e la sua area di influenza economica. L’economia sociale di mercato a mio parere va considerata come uno di modelli economici e sociali attraverso cui si è manifestato nel secondo dopoguerra lo stato costituzionale democratico e sociale. Applicare anche a Francia, Italia, Gran Bretagna l’etichetta dell’economia sociale di mercato rischia di essere fuorviante, di snaturare i caratteri specifici di quel modello e di trascurare l’esistenza di altre manifestazione dello stato costituzionale democratico e sociale caratterizzate da politiche economiche e sociali di ispirazione diversa, incentrate sulla programmazione economica e la politica industriale piuttosto che sulla politica della concorrenza, e su politiche macroeconomiche di ispirazione keynesiana piuttosto che di stampo ordoliberale. Insomma, più che fare esclusivo riferimento all’economia sociale di mercato, avrei trovato più preciso il riferimento all’insieme delle esperienze di stato interventista che hanno contribuito ai cosiddetti “trenta gloriosi”.

Oltre a sentirmi in sintonia con il giudizio favorevole sul passato, condivido anche il giudizio critico sul presente di Sandulli. Egli non nasconde che la torsione neoliberale sia tutt’ora all’opera (o almeno questo scriveva nel 2018; non so se gli sviluppi più recenti abbiano modificato la sua valutazione complessiva). Per quanto mi riguarda, rispetto alle novità introdotte a partire dall’inizio della pandemia, ritengo che lo stato attuale dell’integrazione europea sia contrassegnato da una notevole ambiguità e dall’incertezza tra la prospettiva del mutamento costituzionale, in direzione di un assetto istituzionale che gradualmente si affranca dall’ipoteca neoliberale, ed un possibile “ritorno allo Statuto”, ovvero ai Trattati vigenti e al loro impianto giuridico, economico e ideologico (cf. M. Dani, La scossa della pandemia e l’Unione europea: rottura o mutamento costituzionale? In A. Somma, E. Mostacci (a cura di), Dopo le crisi. Dialoghi sul futuro dell’Europa, Rogas edizioni, 2021).

Detto questo, provo ad articolare i miei rilievi critici rispetto alle tesi avanzate nel libro.

Anzitutto, la tesi del disequilibrio esistente, secondo Sandulli, nell’attuale configurazione istituzionale europea. Si tratta di una tesi a prima vista persuasiva (la stessa idea di una torsione neoliberale in fondo la presuppone), ma a ben vedere essa mi pare viziata da una prospettiva metodologica che non del tutto convincente. Provo a spiegarmi: la tesi del disequilibrio mi pare assuma l’esistenza di tre entità (economia, diritto e politica) che, nella loro individualità, sarebbero caratterizzate una natura costante nel tempo e da un’identità univoca, ovvero dall’assenza al loro interno di qualsiasi tensione dialettica. L’argomentazione di Sandulli infatti individua sì diverse stagioni storico-evolutive, ma la loro differenza non consisterebbe tanto nelle diverse concezioni di diritto, economia e politica in esse sviluppate, quanto nella diversa influenza esercitata dai tre “ingredienti”. Ecco, a me sembra che questa modalità ricostruttiva sia semplicistica, per la ragione piuttosto banale che la natura di ciò che chiamiamo diritto (o politica o economia) in un certo periodo storico è notevolmente diversa dalla natura della stessa entità in un momento diverso. E che anche nel medesimo periodo storico l’identità degli ingredienti non è mai definita una volta per tutte, ma riflette incessantemente tensioni se non veri e propri conflitti interni a ciascuna delle scienze sociali in questione. Provo a fare qualche esempio: il diritto costituzionale del periodo del laissez-faire è cosa estremamente diversa dal diritto costituzionale maturato in concomitanza con l’esperienza del New Deal. O, per restare in Europa, il diritto costituzionale dell’economia precedente al Trattato di Maastricht è cosa estremamente diversa dal diritto costituzionale dell’economia successivo a Maastricht.

Dove mi portano queste osservazioni tutto sommato banali? A dire che la sfida che ci è posta dalla situazione giuridica odierna non richiama tanto al recupero di un equilibrio astratto tra tre ingredienti, ad una rideterminazione più proporzionata delle dosi. Ciò su cui siamo chiamati a riflettere è il fatto che il diritto, la politica e l’economia, a seconda del periodo storico, danno vita a dei regimi che presuppongono determinate forze politiche e sociali e che sono diretti al perseguimento di alcuni obiettivi coerenti con determinati assunti valoriali e ideologici. E che se di equilibrio si vuole parlare, è molto difficile farlo in astratto: l’equilibrio è sempre contestuale, ovvero calibrato e coerente con quelli che sono gli obiettivi e le caratteristiche di uno specifico regime. E’ solo ragionando in questo modo che possiamo affrontare in maniera consapevole le questioni che l’attualità ci pone. Per esempio, pensiamo al caso Weiss: quale è la soluzione equilibrata alla questione riguardante la legittimità del Quantitative easing della BCE ed i limiti della politica monetaria? E’ chiaro che se partiamo dal regime di impronta prevalentemente ordoliberale concepito a Maastricht, la riposta equilibrata è quella fornita dalla corte costituzionale tedesca; se invece riteniamo che quel regime sia superato o da superare, saremo portati a pensare che la soluzione equilibrata si collochi più vicino alla posizione tenuta dalla Corte di giustizia e la BCE. Un dato però è evidente: il diritto, considerato astrattamente, non offre una risposta univoca al quesito. Non è quindi ritornando al diritto e auspicando un ruolo militante del giurista che possiamo pensare di risolvere quelli che sono problemi essenzialmente politici che ci troviamo ad affrontare.

Si sarà capito che, a differenza di quanto si sostiene nel libro, ritengo in una certa misura inevitabile che il diritto svolga una funzione infrastrutturale e, personalmente, la cosa non mi scandalizza. Penso infatti che tutte le esperienze giuridiche, tutti gli istituti siano in maniera più o meno esplicita connessi ad un certo assetto di rapporti economici, politici e sociali e, quindi, a determinate finalità prevalenti in un determinato contesto ordinamentale. Si badi, questo non significa necessariamente accreditare l’idea che il diritto debba svolgere una funzione ancillare; penso piuttosto che il diritto sia una delle variabili in campo o, per usare un’altra bella metafora impiegata da Sandulli, che il diritto sia uno degli strumenti dell’orchestra, senza che però debba necessariamente intestarsi il ruolo di strumento solista.

Se questa è la prospettiva che ritengo più fruttuosa, quali implicazioni ne discendono in merito al ruolo del giurista nel processo di integrazione europea? Se ho ben compreso, Sandulli immagina un giurista militante che, come già accaduto nel passato, sia in grado di “dare forza di costituzione materiale al processo di integrazione nei periodi di impasse” (p. 41). Sempre se ho capito correttamente, secondo Sandulli si dovrebbe continuare a percorrere la strada dell’ “integrazione attraverso il diritto”, un percorso che a suo dire vedrebbe il diritto amministrativo nel ruolo di battistrada, a cui dovrebbe seguire il diritto costituzionale, chiamato ad irrobustire ed in qualche modo a legittimare il processo di integrazione europea.

Ebbene, una simile proposta non mi convince almeno per due ragioni. Anzitutto, è una prospettiva che guarda al processo di integrazione come un valore in sé, senza specificare, al di là del generico riferimento all’Europa dei popoli, quale sia la sua finalità: l’integrazione deve servire a trasformare lo stato costituzionale ed il modello sociale europeo o deve servire a difenderlo e rafforzarlo? Il libro non mi sembra dia una risposta univoca a questo quesito e invece secondo me questa è la prima questione da dirimere per impostare in maniera non edulcorata il tema delle prospettive del processo di integrazione europea. In secondo luogo, la prospettiva indicata mi sembra non faccia sufficientemente i conti con i fallimenti a cui ha già condotto l’approccio dell’integrazione attraverso il diritto: penso al fallimento del Trattato costituzionale, ma penso più in generale al fatto che non si può ambire all’instaurazione di un assetto propriamente costituzionale in assenza di un sistema politico sufficientemente solido e strutturato (a questo riguardo, sottoscrivo e rinvio in toto alle analisi di autori come Grimm e Haltern).

Queste considerazioni mi portano a chiudere affermando che più che di un giurista militante, nel processo di integrazione europea si sente il drammatico bisogno di un giurista che, in assenza di aggettivi migliori, definirei critico, ovvero di un giurista che sia disponibile a mettere al servizio le proprie conoscenze e la propria cultura anzitutto al fine di ricostruire spassionatamente la situazione in cui ci troviamo, e a dare indicazioni sulle implicazioni di determinate scelte (o non scelte) che rimangono anzitutto prerogative della politica, senza ambire apertamente o surrettiziamente a sostituirsi a questa.

Se dovessi tratteggiare l’identikit di un simile giurista, direi che si dovrebbe caratterizzare per quattro caratteristiche: 1) La consapevolezza dei limiti del diritto 2) un sano scetticismo verso i luoghi comuni dell’europeismo e dell’antieuropeismo, accompagnato dalla disponibilità a discuterli, approfondirli e semmai a confutarli in concreto (per esempio: Sandulli ripete più volte che “l’Europa vive di crisi che riesce sempre a trasformare in opportunità”: davvero è così? Davvero la crisi petrolifere degli anni ’70 sono state trasformate in opportunità per i popoli europei? O, per venire a crisi più recenti, davvero possiamo guardare alla crisi migratoria o della rule of law come a delle crisi che necessariamente si trasformeranno in opportunità?); 3) Il rifiuto di ogni determinismo storico rispetto al processo di integrazione europea, accompagnato dalla laica disponibilità ad ammettere una pluralità di possibili scenari evolutivi, non necessariamente favorevoli ad una maggiore integrazione 4) Il rifiuto della dialettica europeismo e anti-europeismo: ci troviamo in una situazione in cui tanto l’approdo in senso federalista quanto la dissoluzione del progetto europeo richiedono forze politiche che, almeno per il momento, non esistono. La realtà è che almeno per un certo periodo di tempo ci dovremo misurare con un assetto istituzionale fondato sull’interazione, possibilmente virtuosa, tra politiche sovranazionali e assetti costituzionali statali. La vera discussione da fare a partire da questi dati di partenza è quella riguardante quale sia l’assetto multilaterale di cui l’Europa ha oggi maggiormente bisogno: un assetto che conferma e rafforza lo stato costituzionale democratico e sociale o un assetto che continua a puntare alla sua trasformazione in senso neoliberale? Insomma, si può sicuramente convenire con Sandulli sull’opportunità di riaffermare le ragioni del diritto, ma la premessa è accordarsi (o almeno chiarire) quale sia il diritto o il regime giuridico a cui si aspira ritornare.

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