La lezione spagnola sul regionalismo differenziato

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di Gianluca Gardini

Da quando il Governo guidato dalla premier Giorgia Meloni, e in particolare il suo coriaceo Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, ha inserito nell’agenda politica il tema della differenziazione regionale, svegliandolo dopo un letargo durato oltre vent’anni, l’opinione pubblica si è letteralmente spaccata in due (Diamanti). Come una grossa mela, il Paese si è diviso a metà tra sostenitori della simmetria e dell’asimmetria regionale: la prima ritenuta più equa e solidale, la seconda considerata più adatta a rispondere ai diversi bisogni dei territori e a liberare le energie produttive del Paese.

Vediamo i fatti, al di là delle ideologie. Sfruttando la possibilità per le Regioni ordinarie di richiedere «ulteriori e forme e condizioni di autonomia» ai sensi dell’art.116.3 Cost., e rilanciando un’idea nata (non a caso) negli anni immediatamente successivi alla bocciatura della riforma costituzionale Renzi-Boschi, all’uscita della crisi pandemica il Governo mette in discussione il modello “uniforme” delle Regioni ordinarie (quelle speciali, si sa, fanno storia a sé), nel tentativo di dare vita ad un modello più efficiente di regionalismo. Un modello che, per ammissione dello stesso Ministro (Calderoli Rassegna Astrid) strizza l’occhio allo Stato autónomico spagnolo, dove il regime delle Comunidades autónomas (le nostre Regioni) fu concepito sin dall’origine come differenziato, flessibile e aperto a continue modifiche.

Così, nel gennaio 2023 il Ministro presenta un disegno di legge riguardante i principi e la procedura necessaria per la concessione dell’autonomia differenziata alle Regioni che ne facciano richiesta (A.S. n. 615). Si imbocca dunque la strada della “legge generale di attuazione” della Costituzione – l’idea venne al Ministro Boccia, nel Governo Conte II – quale norma (forse) interposta che indica una disciplina procedurale generale, per garantire un processo attuativo più ordinato dell’art. 116.3 Cost.: una scelta di per sé non obbligata e che, in dottrina, è stata da più parti criticata perché foriera di elementi di complicazione. Fatto è che il disegno di legge Calderoli ottiene l’approvazione del Consiglio dei ministri e dallo scorso marzo è in discussione al Parlamento per la sua approvazione.

La proposta di attribuire maggiori competenze legislative e amministrative sulla base di un atto di iniziativa della Regione interessata e di un successivo accordo con il Governo, però, non smette di generare divisioni, sia tra i comuni cittadini che tra gli esperti. I sostenitori affermano che le Regioni più produttive e avanzate del paese non devono essere tenute a freno da quelle più arretrate, come Ferrari obbligate a percorrere una mulattiera. I critici evidenziano soprattutto i rischi di nuove disuguaglianze: la richiesta di alcune Regioni (in particolare, Veneto e Lombardia) di trattenere per sé il gettito fiscale “maturato nel territorio regionale” solleva veementi critiche contro la “secessione dei ricchi” (Viesti). Altri ritengono che il modello differenziato “ordinario” non sia giustificato «da ragioni profonde legate ad esigenze determinate da marcate identità territoriali, ragioni linguistiche o storiche, come fu per le regioni a statuto speciale”; e, soprattutto, che possa comportare un mutamento della forma di governo «dalla portata enorme e non predeterminabile» (Maci).

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Lo scenario che si prospetta è quello di una trasformazione delle Regione ordinarie (tutte o buona parte di esse) in altrettante Regioni a statuto speciale, caratterizzate da funzioni e risorse ottenute à la carte, con un conseguente aumento della complessità organizzativa del Paese. In questo quadro frammentato assume centralità la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) da garantire su tutto il territorio nazionale, e quindi anche nelle Regioni non differenziate: i LEP vengono considerati un elemento indispensabile per evitare di accrescere le disuguaglianze territoriali e sociali già molto forti all’interno del Paese. A tal fine, lo scorso aprile il Ministro Calderoli ha nominato un “Comitato tecnico-scientifico LEP”, presieduto dal prof. Sabino Cassese ed ora (dopo le dimissioni di quattro autorevoli componenti) composto da 58 rappresentanti delle istituzioni ed esperti di vari orientamenti culturali e politici.

Nonostante le rassicuranti dichiarazioni del Ministro sull’importanza dei LEP, la spaccatura sul regionalismo differenziato non sembra attenuarsi. Esiste una parte giusta a favore della quale schierarsi? Si può distinguere una sinistra e una destra (per dirla con Gaber) in queste fazioni? E, ancora, la possibilità di “differenziare” le Regioni ordinarie, prevista sin dalla riforma costituzionale del 2001, va presa sul serio ed attuata (position paper Astrid), o va considerata una svista del riformatore, da ignorare e finanche cancellare dalla Costituzione?

Non si tratta di valutare un modello astratto, ma di capire se l’organizzazione differenziata dei territori regionali sia più o meno adatta di quella uniforme per rispondere ai bisogni dei cittadini: tra cui rientrano, ovviamente, anche il superamento delle disuguaglianze sociali e territoriali, l’uguaglianza nell’esercizio dei diritti fondamentali, la coesione sociale.

Il modello pluralista/differenziato (unità nella diversità), in teoria, è più adeguato a rispondere alle esigenze di uno Stato disomogeneo sotto il profilo economico-sociale, geografico, storico e culturale, qual è il nostro. In questa direzione si è orientata, sin dalla Costituzione del 1931 (cd. seconda Repubblica), l’esperienza spagnola.

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Ma com’è costruito, concretamente, il modello differenziato “a la spagnola” a cui l’Italia sembra volersi ispirare? L’introduzione di un sistema regionale asimmetrico ha veramente risolto i problemi dei territori e dei nazionalismi storici in Spagna? Proviamo a capire qualcosa di più, andando oltre le contrapposizioni e le formule propagandistiche.

La Costituzione postfranchista del 1978, all’atto di disciplinare il riparto di competenze legislative tra il livello centrale e regionale, si discosta significativamente dall’uniformità del paradigma federale e demanda la realizzazione del modello autónomico ai singoli Statuti, deliberati dalle Comunidades autónomas (d’ora in poi CCAA) e approvati in via definitiva con legge dello Stato, sulla base di accordi politici con ciascuna di esse. Questa differenziazione tra le CCAA, legata alle scelte individuali (inclusa quella di non costituirsi in Regioni), si salda con l’altra distinzione basata sulle vie di accesso all’autonomia: la via “rapida” (o reforzada), disciplinata all’art. 151 CE, e quella “lenta” (o ordinaria) regolata dagli artt. 143-146 CE. Le Regioni che avevano elaborato e sottoposto a referendum popolare il proprio Statuto durante la II Repubblica (cd. storiche), come Paesi Baschi, Catalogna e Galizia, ottengono automaticamente accesso alla via rapida, mentre le altre CCAA devono seguire la via lenta.

L’insieme di queste variabili (autonomie storiche, accesso per la via rapida/lenta, indeterminatezza della “mappa” regionale) fa sì che, nel panorama comparato, lo Stato autonomico spagnolo sia considerato “differenziato” per antonomasia. Quello differenziato, tuttavia, non è un modello statico né stabile. Nel momento in cui viene a ratificarsi costituzionalmente un regime differenziato delle CCAA, quelle tra esse che inizialmente beneficiano di minore competenza e risorse avviano un percorso di progressivo avvicinamento alle CCAA storiche (cd. igualación competencial). Nel volgere di breve tempo, questa dinamica si trasforma in meccanismo compulsivo, che scatena un inseguimento incessante tra i territori: una volta raggiunte dalle altre, infatti, le CCAA storiche iniziano a chiedere ulteriori competenze e risorse allo Stato, al fine di conservare intatto il vantaggio originario, percepito come un patrimonio identitario irrinunciabile. Questo inseguimento non ha conosciuto soluzioni di continuità dalla Costituzione del 1978 ad oggi, in una riedizione perfetta del paradosso di Achille e la tartaruga applicato ai rapporti centro-periferia.

Il pericolo, alla lunga, sono le fughe in avanti. Le CCAA storiche (o almeno una parte di esse), reagendo all’ingiustizia che ritengono di aver subito a causa della igualación competencial, hanno alzato la posta e iniziato ad avanzare richieste separatiste e di indipendenza sulla base di un equivocato principio di “autodeterminazione dei popoli” (proposto come “diritto a decidere” o “mandato democratico”). Nel giro di pochi anni si è prodotta un’escalation rovinosa delle istanze autonomistiche: il caso della Catalogna è quello che meglio esemplifica tale radicalizzazione.

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È quasi superfluo sottolineare che l’attivazione della clausola della c.d. autonomia differenziata ex art. 116.3 Cost. da parte di alcune Regioni italiane, non a caso quelle più ricche e produttive del Paese, potrebbe innescare anche nel nostro Paese un meccanismo simile a quello spagnolo.

Questo non significa che la differenziazione tra le Regioni sia un male in sé, tutt’altro. L’autonomia serve soprattutto a far sì che i territori si dotino di una disciplina differenziata in modo da rispondere ai bisogni diversificati, ovviamente nei limiti indicati dalla Costituzione e dalla tutela dei diritti costituzionali. La valorizzazione delle diversità rafforza, non indebolisce l’unità della Nazione.

Il problema concreto, nei sistemi decentrati, è trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia/differenziazione e quelle di uguaglianza sostanziale/solidarietà. La difficoltà aumenta quando le richieste di maggiore autonomia tendono soprattutto all’ottenimento di nuovi finanziamenti, prescindendo dalla capacità effettiva delle Regioni di gestire le competenze richieste.

Il ruolo degli studiosi è quello di riportare equilibrio in questo dibattito: orientando le scelte della politica verso le soluzioni organizzative migliori, indicando con chiarezza i limiti della Costituzione, tenendo lontana la discussione dalle contrapposizioni ideologiche e dai radicalismi.

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