Le immagini dei beni culturali: niente di nuovo sul fronte dell’uso dopo il recepimento delle direttive sul diritto d’autore e sul riuso dei dati pubblici

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di Ilde Forgione

Il tema dell’uso delle immagini dei beni culturali è stato oggetto di un recente e vivace dibattito, che ha visto contrapporsi due diverse impostazioni teoriche, le cui ricadute pratiche risultano piuttosto significative in punto di libertà economiche, diritto alla cultura e gestione economica dei beni. Secondo una prima impostazione l’immagine digitale dei beni culturali costituisce essenzialmente una proiezione ideale dei beni oggetto di proprietà pubblica, ragione per la quale anche l’immagine appartiene all’ente titolare della collezione e, come tale, è sottoposta alle medesime regole sia di tutela, rispetto a potenziali usi inappropriati e abusivi, sia di gestione e valorizzazione. In quest’ottica il museo è visto come un operatore economico che soggiace ad obblighi di gestione in equilibrio del bilancio e che si pone anche lo scopo di valorizzare l’immateriale economico dei beni. Il corrispettivo, in particolare, rappresenta una forma di contribuzione alla copertura dei costi, ma anche di funzionamento degli Istituti, tutela dei beni e ampliamento dell’offerta di fruizione. In quest’ottica, i costi sostenuti dal privato che intenda sfruttare l’immagine del bene pubblico rimangono all’interno del sistema Paese, contribuendo in modo indiretto alle essenziali funzioni attribuite dall’art. 9 della Costituzione ai beni culturali.

La seconda impostazione, invece, rivendica l’esistenza di un diritto soggettivo al patrimonio culturale, ponendo l’accento sull’accesso gratuito dei cittadini, anche quello virtuale da remoto. Stando a questa visione, l’uso delle immagini digitali dei beni sarebbe in grado di favorire lo sviluppo economico, stimolando la creatività, ragione per la quale non dovrebbe soggiacere ad alcun prelievo economico.

Recentemente, il recepimento della direttiva 2019/790, sul diritto d’autore, e della direttiva 2019/1024, sull’apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, ha offerto al legislatore nazionale l’occasione per fare il punto sulla dibattuta questione circa l’opportunità di liberalizzare tout court l’uso delle immagini del patrimonio culturale. In tali occasioni il legislatore ha confermato il sistema del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale differenzia il regime a seconda della finalità dell’uso. Le disposizioni codicistiche in punto di riproduzione e divulgazione delle immagini di beni culturali si pongono in linea con l’orizzonte tracciato dalle direttive europee, ragione per la quale il legislatore ha ritenuto di mantenerle ferme.

Per quanto riguarda il recepimento della direttiva “copyright”, il d.lgs. n. 177/2021 inserisce nella legge sul diritto d’autore, n. 633/1941, l’art. 32 quater, il quale dispone che, per i beni culturali, restano ferme le disposizioni del Codice in materia di riproduzione. Per tale via, si conferma in modo indiretto l’impianto precedente, rimandando alla disciplina di settore per le norme in materia di uso delle immagini dei beni culturali. Introducendo l’art. 32 quater si è ritenuto opportuno mantenere un doppio binario per l’uso delle immagini dei beni culturali, seguendo la ripartizione prevista dall’art. 108 del Codice, che distingue a seconda della finalità.

Il recepimento si pone pienamente in linea con l’approccio europeo; è sufficiente un rapido riscontro per verificarlo. L’art. 14 della Direttiva 2019/790, prevede che alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, la riproduzione di tale opera non sia soggetta al diritto d’autore, senza differenziare tra gli scopi delle riproduzioni, potendo includere sia attività a scopo di lucro che prive di esso. Tuttavia, lascia al decisore politico nazionale la rimozione dei limiti alla riproduzione dei beni culturali, poiché le norme interne di tutela di tali beni non sono poste a salvaguardia del diritto d’autore, bensì dei beni culturali quali beni pubblici.

La tesi che spinge per la liberalizzazione totale fa leva sulla formulazione dell’art. 14, che appunto non distingue tra le finalità dell’uso, ma anche sul Considerando n. 53, secondo il quale la circolazione di riproduzioni di opere di pubblico dominio favorisce l’accesso alla cultura e al patrimonio culturale. La previsione viene letta in modo coordinato con il Considerando n. 49 della Direttiva 2019/1024, il quale afferma il principio per cui i materiali in pubblico dominio rimangono tali una volta digitalizzati. Tuttavia, come dichiarato espressamente dall’art. 107 comma 1 del Codice, la disciplina codicistica è autonoma rispetto a quella in materia di diritto d’autore; la ragione di tale reciproca autonomia sta nella diversa natura degli interessi protetti: privati nel caso della normativa autoriale, e pubblici nel caso dei beni culturali.

La presa di posizione del legislatore è confermata anche dal d.lgs. n. 200/2021, di recepimento della direttiva 2019/1024 sul riuso dell’informazione del settore pubblico. In particolare, seppure dalle disposizioni della Direttiva emerge l’importanza rivestita dai contenuti digitali per l’evoluzione verso una società basata sui dati (Considerando nn. 11 e 12), con la specificazione che raccolte del patrimonio culturale, con i relativi metadati, possono rappresentare “una base per i prodotti e servizi a contenuto digitale e hanno un enorme potenziale per il riutilizzo innovativo in settori quali la formazione e il turismo” (Considerando n. 65), ancora una volta, simile impostazione non si traduce in un vincolo per gli Stati membri a rendere libero e aperto ogni tipo di dato e per ogni finalità. Infatti, lo stesso legislatore europeo prevede la possibilità che il riutilizzo sia sottoposto a condizioni, purché esse siano “obiettive, proporzionate, non discriminatorie e giustificate sulla base di un obiettivo di interesse pubblico” (art. 8).

Quanto alla tariffazione, la regola generale della gratuità del riutilizzo (art. 6, par. 1) viene esplicitamente ribaltata nel caso di musei, biblioteche e archivi pubblici (art. 6, par. 2 lett. b)), con un impianto che rimanda a quella del Considerando n. 53 della Direttiva 2019/790, nella parte in cui si afferma che il venir meno del diritto d’autore “non dovrebbe impedire agli istituti di tutela del patrimonio culturale di vendere riproduzioni”. Qualora sia richiesto il pagamento di un corrispettivo per il riuso, questo non può superare nel corso di un periodo contabile adeguato i costi di raccolta, produzione e in genere di gestione, “maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti”, “per non ostacolare il proprio normale funzionamento” (art. 6, par. 5 e Considerando n. 38 della direttiva 2019/1024). In sostanza, le direttive confermano che per il riuso da parte dei terzi delle risorse culturali non vale la regola generale della gratuità e, anzi, oltre a comprendere la copertura dei costi, può essere prevista una remunerazione dell’investimento a tali fini effettuato. A rafforzare tale convinzione contribuisce pure il Considerando n. 46, il quale prevede significativamente la possibilità di adottare “tariffe differenziate per il riutilizzo a fini commerciali e non commerciali”.

Tale approccio è stato pienamente condiviso dal legislatore nazionale; quest’ultimo ha inserito nel corpo del d.lgs. n. 36/2006, sulle modalità di riutilizzo dei dati pubblici, l’art. 12 bis, dedicato ai “dati di elevato valore”, tra i quali rientrano quelli delle Istituzioni culturali. L’art. 12 bis, riprendendo la formulazione dell’art. 6 della direttiva, conferma il ribaltamento del paradigma della gratuità quando si tratta di dati detenuti da biblioteche, musei o archivi, proprio riconoscendone l’elevato valore, anche economico, e la conseguente necessità di valorizzazione dell’immateriale economico.

Nel recepire la direttiva, dunque, il legislatore si è mosso in modo coerente con il resto del panorama nazionale ed europeo, in particolare con il d.lgs. n. 177/2021, mostrando di seguire un filo conduttore unitario, da individuarsi nel rinvio al Codice per quanto riguarda la disciplina dei beni culturali in quanto normativa di settore e, in particolare, nella possibilità di adottare tariffe differenziate a seconda della finalità dell’uso.

Nel percorso seguito dai decreti nn. 177 e 200 si può cogliere sia un’attenzione verso i cittadini e gli studiosi, inclusi gli editori scientifici, che possono utilizzare liberamente o gratuitamente le immagini; sia l’attenzione alla necessità di un’azione amministrativa “in attivo”, attenta alle esigenze di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico, connesse allo sfruttamento del valore immateriale economico dei beni culturali. D’altra parte, ben potendo la messa a disposizione delle immagini dei beni ricondotta alla prestazione di servizio di valorizzazione, anche economica, questa partecipa del medesimo regime, improntato a onerosità o corrispettività.

L’aver lasciato inalterata la disciplina codicistica costituisce dunque una scelta di politica legislativa che mira a bilanciare due opposti interessi: quello alla diffusione della conoscenza del patrimonio e quello alla gestione economica delle utilità derivanti dai beni, la quale consente di reinvestire i proventi nella più efficiente ed efficace gestione della cultura e nel miglioramento dei servizi all’utenza; la liberalizzazione totale, al contrario, finirebbe unicamente per creare un privatissimo lucro. Per tali ragioni, la lettura coordinata delle disposizioni esaminate deve interpretarsi nel senso che il venir meno della tutela autoriale per le opere o la necessità di favorire il riuso dei dati pubblici non impongono agli Istituti culturali la gratuità dell’uso delle immagini da parte di esterni. In definitiva, la soluzione prospettata dal legislatore nazionale nel recepimento delle direttive citate non solo è valida giuridicamente, ma risponde ai dettami dell’Unione europea, anche sul piano della necessità di attuare una gestione attenta e oculata delle risorse pubbliche, incluse quelle culturali.

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