Necessaria discontinuità (e continuità) nel diritto pubblico

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di Leonardo Ferrara

Il punto e il tempo di osservazione cambiano gli Orizzonti, scusatemi, gli orizzonti. Quel che è o era discontinuità può significare continuità e, viceversa, quel che è o era continuità può farsi discontinuità. Si affacciano nondimeno nuovi orizzonti. Orizzonti lontani diventano vicini e vicini lontani.

Naturalmente, gli orizzonti mutano anche a seconda dell’osservatore (altrimenti che pluralismo è?).

  1. Intro

         “Dopo le crisi epocali che abbiamo vissuto (quella finanziaria e l’austerity, la pandemia) e nel pieno della crisi ecologica e di una guerra in Europa, ci sembra che le ragioni di una «necessaria discontinuità» siano più che mai attuali per continuare a riflettere, fuori da accademismi o dimensioni esclusivamente professionali, sull’esercizio del potere e il ruolo del diritto in una società democratica contemporanea” (Civitarese).

         La presentazione del blog invoglia la discussione. È da aspettarsi una nutrita serie di dotti (non troppo, si spera …) interventi, della più ampia provenienza culturale; desidero solo rompere il ghiaccio, soffermandomi, anche in forma di domanda, su alcuni dei motivi che a mio avviso rendono attuali le ragioni della necessaria discontinuità a dispetto dei grandi mutamenti sociali, economici, politici e giuridici (e naturali) intervenuti in più di trenta anni (il quaderno del San Martino che dà il titolo alla presentazione del blog è del 1990).

         Risulterà al termine evidente che continuità e discontinuità sono in dialettica perenne e che quella che era una discontinuità può essere ora vista come una continuità.

  1. Presidenzialismo e separazione politica-amministrazione

         Partirò dal caveat lanciato da Rolando Tarchi nell’assemblea di giugno dell’“Associazione amici del diritto pubblico”. Dobbiamo fare attenzione a invocare la necessaria discontinuità, perché in questo frangente politico la discontinuità può essere associata ai progetti di riforma presidenzialista o semipresidenzialista, attraverso la cui attuazione, si potrebbe dire con una citazione, si assisterebbe al “rovesciamento delle maggiori linee ispiratrici” della nostra forma di governo (Cheli, 2023). Su questo avvertimento vorrei andare un po’ a fondo.

         Nel presidenzialismo vedo i seguenti rischi: quello di accentuare (invece di attenuare) i meccanismi di do ut des che accompagnano la struttura fortemente corporativa della società italiana (vi torno più avanti), a discapito dei processi democratici di mediazione politica; quello di intensificare le contrapposizioni secondo logiche da tifoseria calcistica; quello di favorire le semplificazioni, così come le personalizzazioni della politica. Vi è, inoltre, da considerare, anche prescindendo dal rischio di derive autoritarie, l’indiscutibile concentrazione di potere e il sicuro indebolimento della funzione di controllo costituzionale.

         Si deve al tempo stesso mettere in conto la correlazione esistente (dimostrata in termini comparatistici) tra la democrazia maggioritaria, che in quelle riforme troverebbe il suo coronamento, e l’aumento delle diseguaglianze socio-economiche (anche su queste torno tra poco): tanto più se tale correlazione viene confrontata con quella tra la democrazia “negoziale”, basata sul sistema proporzionale e la concertazione a livello centrale, e lo sviluppo inclusivo, cioè, la crescita affiancata dal contrasto alle diseguaglianze (Trigilia, 2022).

         Non sono neppure pienamente condivisibili le motivazioni che stanno dietro ai progetti di cui si sta facendo questione: il superamento dell’instabilità dei governi e più in generale della scarsa efficienza operativa del potere esecutivo.

         Intanto, alla governabilità si può mettere mano con altri strumenti, come la sfiducia costruttiva, ma soprattutto è rispetto all’inefficienza dell’esecutivo che è paradossale la diagnosi, è travisata la causa ed è sbagliata la cura.

         È paradossale la diagnosi se si considera il massiccio spostamento sul Governo del potere normativo (vista la combinazione di decreti-legge, decreti-delegati, leggi di iniziativa governativa, voti di fiducia, maxi-emendamento sulle leggi di bilancio), tanto che al Parlamento restano poco più che le leggi in materia di diritti civili. Da rafforzare allora sono proprio il Parlamento e la rappresentanza democratica (non il Governo o il Presidente del Consiglio): attraverso le “riforme della politica” e segnatamente dei partiti (Cheli, 2023) e magari anche con il ritorno al proporzionale, ingiustamente ritenuto “la matrice principale dei mali della politica italiana” (Trigilia, 2022) e, invero, incarnazione del principio di eguaglianza politica (“una testa, un voto; ciascuno vale per uno, non più di uno, non meno di uno”: Veca, 1988).

         È travisata la causa dell’inefficienza del potere esecutivo e di conseguenza sbagliata la cura, perché la più grave debolezza del Governo non si rinviene nel suo vertice ma negli apparati sottoposti (compresi gli uffici di diretta collaborazione), a causa della resistenza esercitata rispetto al cambiamento voluto dalla compagine ministeriale al momento in carica e a causa della mancata o ritardata attuazione amministrativa delle norme (come riflesso non unico dell’anzidetta resistenza).

         Ancora una volta (come per l’abbandono del sistema elettorale proporzionale) viene da domandarsi quanto delle riforme degli ultimi trenta anni sia causa piuttosto che effetto della crisi della democrazia rappresentativa.

         Mi riferisco alla separazione politica-amministrazione, che mostra più di una deficienza. Intanto, non considera le differenze dimensionali degli apparati, andando incontro a un duplice e opposto fallimento: scontando la generalizzazione può, infatti, dirsi che, da una parte, nelle amministrazioni di ridotte dimensioni (i Comuni e le Università, per fare degli esempi), si assiste alla “subordinazione anche culturale dei dirigenti pubblici alla politica” (Monaco, 2016), mentre, dall’altra, nelle amministrazioni di cui ci stiamo occupando, la dirigenza contrasta o sostituisce gli organi di indirizzo politico (Mattarella, 2016). Inoltre, ma direi soprattutto, la separazione (o anche solo distinzione) tra la politica e la gestione è intimamente contraddittoria, nella misura in cui nega l’intrinseca politicità dell’intero processo decisionale, tanto che chi ha sperimentato sul campo entrambi i ruoli (di politico e di dirigente) arriva a proporre meccanismi di dialogo e di collaborazione tra le due sfere che non incontrino soluzione di continuità (R. Nocentini, 2023).

         Se il potere politico passa di mano ma le novità sono modeste (il che costituisce una delle spiegazioni della disaffezione alla politica dei cittadini), lo si deve però anche ai capi gabinetto e ai capi legislativo dei ministri, che non solo consistono in grandissima maggioranza in consiglieri di Stato (membri di un apparato che rappresenta in modo emblematico la continuità dello Stato), ma sono anche per lo più sempre gli stessi (lo chiamerei l’anatema di Tomasi di Lampedusa; per quanto l’avesse già lanciato De Roberto).

         A questo punto si possono tirare le fila del discorso allo scopo di arrivare a un primo risultato in ordine all’attualità dell’ispirazione sanmartiniana (sempre in vista di un confronto anche con chi in questa inspirazione non si riconosce).

         Se trenta anni fa tra le ragioni della discontinuità vi era la necessità di portare ad attuazione i valori liberaldemocratici sanciti dalla Carta costituzionale (di un “impegno verso l’attuazione costituzionale” ragionava per esempio Cheli), di fronte agli attuali progetti di riforma presidenzialistica è sempre la Costituzione “che deve essere difesa e promossa” (Zagrebelsky, 2023; o che deve essere “difesa ancora più che in passato”: Cheli, 2023). In questi termini, nell’identità dell’ispirazione di ieri e di oggi, si può parlare della necessità di una continuità.

  1. Diseguaglianze

         Quanto appena detto non implica, tuttavia, che l’attuazione della Costituzione non sia ancora da venire: non tanto (o non soltanto) in riferimento a singole disposizioni (si veda a questo proposito La Costituzione “dimenticata”, nel fasc. 1 del 2021 della trimestrale di diritto pubblico), ma soprattutto con riguardo al fondamentale progetto sociale sottostante al principio di eguaglianza sostanziale.

         Rieccoci al tema delle diseguaglianze, tanto grave che mi risuonano le parole di Rescigno nel nostro Quaderno: esiste “una soglia minima al di sotto della quale non c’è attuazione del principio, ma violazione”.

         Siamo qui di fronte a un’altra ragione dell’attualità della necessaria discontinuità, che ha sempre il volto della continuità di un ideale, di un progetto, di una finalità.

         Il superamento delle diseguaglianze è un fine, ma, forse, anche più di un fine (è un mezzo per un altro fine, che è mezzo per un fine ulteriore, e così via secondo una catena … infinita, direbbe Mengoni). L’abbattimento delle diseguaglianze rende gli esseri umani (uomini e donne) più simili (per la verità gli fa solo vedere una somiglianza che non vedono) e questo a sua volta li rende meno intolleranti e forse anche più interessati all’altro (“è l’attrazione verso la somiglianza che fa dire a un uomo «bello» davanti a un paesaggio, una donna, un quadro”: Radiguet, 1923).

  1. I nuovi poteri privati

         Un caveat vorrei ora lanciarlo io però: non illudiamoci che le ragioni della necessaria discontinuità si esauriscano. La necessaria discontinuità è una condizione perenne. Lo è perché la realtà corre sempre più veloce delle idealità: non c’è progetto che possa dirsi realizzato una volta per tutte.

         Basterebbe pensare al costituzionalismo, che ha limitato il potere politico ma si trova nudo davanti ai nuovi poteri privati; oppure al personalismo, astretto davanti alle nuove tecnologie e in specie all’intelligenza artificiale tra paure (giustificate dalla “razionalità scientifica [che] ha mostrato il suo volto irrazionale” e dal “progresso della potenza umana [che] è sfociato nell’impotenza umana di controllare la propria forza”: Morin; Simoncini) e speranze (di emancipazione umana e di rigenerazione naturale).

         Con questo non voglio anche dire che i (cosiddetti) nuovi poteri privati costituiscano una sfida proprio recente per il costituzionalismo: sempre nel nostro Quaderno Sorace già osservava che l’epoca contemporanea “assiste allo svilupparsi di potentati privati nei confronti dei quali il potere pubblico lungi dall’essere superfluo risulta semmai insufficiente e patetico nelle sue obsolete manifestazioni”. Tantomeno costituiscono una sfida recente per il costituzionalismo i poteri privati in generale, se come ci ricorda Mannoni “Thomas Hobbes sosteneva che la sovranità è stata concepita e inventata innanzitutto per frenare e mettere la museruola ai poteri privati che minaccino di confiscare il potere di dettare legge ai sudditi”.

         Siamo allora ancora davanti alla continuità delle ragioni della necessaria discontinuità, alle quali bisogna tuttavia guardare allargando la visuale (di “nuovi orizzonti”, parlava già Cheli nel Quaderno).

         Se i nuovi poteri privati sono “al di sopra del controllo dello Stato” (Tim Wu; in verità, dello Stato democratico: Casini), che pertanto vive una crisi non di necessità ma di sufficienza (Floridi, ma, si è appena visto, già Sorace), perché le imprese del tecno-capitalismo hanno una dimensione globale (il che non significa, o non significa soltanto, che sono “giganti”, ma significa piuttosto che alla concentrazione del potere economico in poche mani corrisponde un potere decisorio dalle ricadute planetarie), il loro argine può nascere solo sulla base di istituzioni pubbliche altrettanto globali (torno sulla questione verso la fine).

  1. Le nuove tecnologie

         Ho fatto sopra un cenno anche alle nuove tecnologie, utilizzate in sempre più settori: dalla diagnostica sanitaria, ai mutui finanziari, alla selezione nei posti di lavoro, all’istruzione, e così via dicendo.

         Pure qui vi è una sfida, per tutta l’umanità; in particolare, vi è un problema di democrazia, consistente nella “leggibilità delle chiavi profonde che strutturano gli algoritmi […] riservata a pochi specialisti” (Ferrarese, 2022), ma in verità sconosciuta anche a questi ultimi in ragione dei processi di auto-apprendimento degli stessi algoritmi.

         Per questo mi ha rasserenato leggere che si può pensare di progettare algoritmi “che rendano espliciti i criteri delle loro decisioni” (Ramajoli-A. Ferrara, 2023), così come vedere che la creazione di standard etici per la progettazione e l’uso dell’I.A. sta assumendo un valore diffuso e prioritario (diversi post su Stroncature).

  1. Organicismo

         Tra i molti motivi di attualità delle ragioni della necessaria discontinuità ve ne sarebbe (almeno ai miei occhi) uno che un po’ inaspettatamente (e indirettamente) ha di recente squadernato Zagrebelsky (in quel volumetto Tempi difficili per la Costituzione del 2023, già incontrato).

         In tanti (almeno così mi piace pensare) ricorderanno il saggio di Andrea Orsi Battaglini, di apertura del Quaderno da cui stiamo partendo, che aveva tra i suoi bersagli l’organicismo, imperante nella cultura giuspubblicistica, proponendo una rilettura del sistema in chiave individualistica.

         Ebbene, Zagrebelsky ci ricorda che tra le contrapposizioni ideologiche che hanno mantenuto intatta nel tempo la loro forza esplicativa vi è quella tra

“individualismo e organicismo, ora riformulata nei termini solo apparentemente nuovi di liberalismo e comunitarismo” (termini che peraltro salvaguardano dalla confusione con l’accezione molto comune di individualismo, che si ritrova tanto per fare un esempio in Comunità contro individualismo di Putnam, o con quella “stirneriana” illustrata di recente da Luciani nella collana “per la storia del pensiero giuridico moderno”).

         Non è ovviamente questa la sede per discutere le tesi del giurista torinese, che mettono insieme il buono (e al tempo stesso respingono il cattivo) dell’uno e dell’altro corno della contrapposizione. Mi sentirei solo di dire a chi avesse letto il libriccino che quelle tesi, complessivamente convincenti, dimenticano a mio avviso tre cose: la lezione di Bobbio, che ha stigmatizzato la parte del tutto, compresa l’unità, nella misura in cui si va a sostituire al tutto, il quale va inteso come somma di tutte le unità; il significato dell’art. 2 Cost., che non ammette la nota “inversione”, secondo cui è la persona funzionale alla formazione sociale, anziché viceversa; il fondamento del liberalismo, che vuole che la libertà del singolo trovi un limite nella libertà dell’altro, costituendo di per sé la forza antagonista all’homo homini lupus.

         Nella consapevolezza che in proposito corrono sensibilità diverse, interessa invece segnalare i tanti temi rispetto ai quali le ragioni dell’individuo rischiano oggi di vedersi sacrificate: penso ai processi di co-decisione o alla partecipazione aperta e alla codeterminazione, cavalli di battaglia di Cordelli (si veda Privatocrazia, uscito l’anno scorso); penso alla democrazia partecipativa; penso a un certo modo di intendere la sussidiarietà orizzontale. Di fronte a questi temi meriterebbe anche riflettere, per l’ennesima volta (ma non potrebbe essere che così: ché forse è diversa la questione per la trasformazione, usando le parole di Saitta, del creazionismo giurisprudenziale in creatività?), se non si stiano scambiando gli effetti con le cause della crisi della democrazia rappresentativa.

  1. Corporativismo

         Le ragioni dell’attualità della necessaria discontinuità trovano probabilmente più ampia condivisione restringendo il campo al corporativismo, che conserva la sua forza di penetrazione nella società italiana e nelle sue istituzioni.

         Devo rammentare la vicenda delle concessioni balneari (su cui da ultimo C.S., 28 agosto 2023, n. 7992) o quella del servizio taxi? O l’incompiuta riforma del C.O.N.I.? Oppure devo ricordare che “il settore pubblico impiega un volume consistente di spesa corrente per soddisfare interessi particolari a breve, spesso in forma assistenziale” (ancora Trigilia, 2022)?

         E che dire del lobbismo, che Rescigno invitava a legalizzare sempre nel nostro Quaderno, al fine di “rendere evidenti e controllabili [gli] interventi [dei] gruppi di pressione”?

         Siamo capaci di cambiare venti volte un articolo della legge sul procedimento amministrativo, abbiamo il record mondiale di disegni di legge per regolamentare il lobbying (Petrillo), ma una legge è ancora lontana dall’essere approvata. A dispetto, aggiungerei, della Raccomandazione della Commissione Ue nel Report di luglio 2023 sullo Stato di diritto.

         Sembra che le “riforme della politica” (Cheli, 2023) siano più difficili di quelle della Costituzione.

         La propensione a riformare la Costituzione fa certamente parte della diffusa rincorsa alle disposizioni normative come soluzione più semplice per risolvere veri o presunti problemi di questo o quel gruppo sociale, di quella più generale “nomorrea” (M. Chiti), testimoniata, ammesso che ce ne sia bisogno, dal fatto che il Poligrafo dello Stato ha censito più di 110 mila leggi statali vigenti. Del resto, ci siamo fatti ammonire anche da Elon Musk circa la necessità di riduzione o abrogazione delle leggi (vi è comunque anche un’esigenza di razionalizzazione, per codici, alla francese).

         Epperò, non si può non esecrare specificatamente l’attuale tendenza alla

 “amministrativizzazione della Costituzione” (T. Frosini), alla sua strumentalizzazione e “appropriazione interessata” (Zagrebelsky, 2023), che è per l’appunto quanto dire alla corporativizzazione della Carta costituzionale.

         Valga a dimostrazione l’introduzione nel testo costituzionale dello sport, nell’art. 33 (la cui approvazione all’unanimità, in data 20 settembre, rinforza soltanto la finalità propagandistica); o quella dell’avvocatura, nell’art. 111, su cui al momento fa pressione il Consiglio Nazionale Forense.

         Ritorna qui la questione della difesa della Costituzione.

  1. Federazione europea e Global Governance

         Si potrebbe andare ancora molto avanti, ma è il momento di abbandonare i confini nazionali per sostenere che discontinuità sarebbe altresì una stretta virata verso la Federazione europea. La federazione sembra rappresentare l’unico modo per conservare un ruolo al Vecchio continente nell’attuale quadro geopolitico, per ancorare indiscutibilmente la rule of law al conclave delle democrazie liberali, per conquistare un’autentica cittadinanza europea.

         Non basta però. Per quanto necessaria, la Federazione europea rappresenta solo un primo passo per potere “aprire grandi orizzonti”, alla ricerca di una governance mondiale (non without ma) with goverment e di un “modello inclusivo [o universale] di cittadinanza”, “oltre la cornice degli Stati” (Schiavone) e oltre la dimensione esclusivamente redistributiva del welfare (Saraceno).

         A questi fini sembra in particolare indispensabile iniziare a investire su un mutamento di mentalità che accompagni congiuntamente la Cina e l’Occidente. La comprensione (e ancor prima la conoscenza) dei propri limiti e delle ragioni dell’altro (utile a questo proposito la lettura di Z. Weiwei, The  China Wave) è l’antica ricetta per superare i conflitti e sconfiggere le rivalità, anche tra potenze globali. Sarà pure una ricetta per certi versi amara, ma certamente più efficace della pacificazione affidata alle sole interazioni economiche.

         Ancora peggio sarebbe immaginare di poter promuovere una visione del mondo basata sull’equità, la democrazia e il rispetto dei diritti umani, tentando contemporaneamente di isolare la Cina sul fronte dello sviluppo tecnologico (vedi l’ordine esecutivo firmato da Biden, che introduce limiti agli investimenti americani, in termini per esempio di joint ventures, in settori come i chips per computer) o facendo affidamento su equazioni del tipo “maggiore è la forza dell’autoritarismo politico minora sarà la crescita economica e l’innovazione tecnologica del Paese” (da Stroncature).

         Immagino la reazione del lettore, tanto più in un momento storico, come quello in cui stiamo vivendo, in cui il multilateralismo si fa sempre più frammentato e polarizzato: ‘Modello universale di cittadinanza? Ma di cosa stiamo parlando?!’.

         Stiamo parlando del fatto che intanto quest’anno avevo in classe Alexandra dalla Romania (va bene, è europea), Bianka e Richard dall’Albania (sì, sono sempre europei), Neil da Mauritius, Tsubasa dal Giappone, Lee da Hong Kong, Karim e Elhami dall’Egitto, Shaked da Israele, Sofian dal Marocco (magari se li taggassi non pensereste che sono nomi inventati …). Detto incidentalmente: i più bravi e i più appassionati. Possiamo considerare la classe frontiera (una frontiera, una tra le tante) dell’unità dell’umano, senza essere tacciati di rincorrere un’utopia dal sapore della melassa?

         Se, favoriti dalla globalizzazione (che ha reso possibili relazioni un tempo impensabili), siamo capaci di vedere le somiglianze più che le dissomiglianze quando siamo in pochi, è davvero illusorio confidare in un mutamento dell’uomo quando siamo in tanti? Se partendo dal basso c’è qualche sprazzo di cambiamento, si può sperare che sempre dal basso, passo per passo, confidando nel logos e nella capacità ordinante della ragione, si possa arrivare a controbilanciare la bellicosità che viene soprattutto dall’alto?

         Se volessi ora concludere, direi che le ragioni più elevate della discontinuità corrispondono alla ricerca a tutti i livelli della somiglianza, che non a caso ha tratti di continuità con l’aspirazione all’unità del fondatore della rivista Diritto pubblico.

  1. Un paio di postille.

         La prima sull’università, visto che vi ho appena fatto riferimento.

         Si è perso il vecchio, che gli audaci fondatori del San Martino volevano abbandonare, ma non so se il nuovo è peggio di quello che c’era prima. Si è ridimensionata l’accademia paludata epperò c’è quella massificata; non ci sono più le Scuole ma ci sono i gruppi di interesse. Chi per esempio non si rende conto che i panel dei convegni sono decisi per appartenenze anziché per competenze? Sarà il caso di farsi un esame di coscienza?

         E le carriere? Abbiamo sempre considerato poco la didattica; e zero la capacità di insegnare; abbiamo iniziato a trasformare la qualità della ricerca in quantità della ricerca; stiamo abbandonando anche la quantità della ricerca per la quantità degli incarichi burocratici. Senza dire della rincorsa alla seduttività dei progetti di ricerca che comprime la libertà di ricerca, e di nuovo la sua qualità. Sarà il momento di cambiare?

         La seconda postilla.

         L’alternativa tra continuità e discontinuità concerne la stessa etichetta “diritto pubblico”.

         Sempre Zagrebelsky (nel breve saggio più volte citato) sostiene che il diritto costituzionale non deve essere confuso con le “branche del diritto non costituzionale”, arrivando a dire che “il diritto pubblico è un coacervo in cui si perdono le identità”.

         A me sembra, invece, che la Costituzione, così come i principi e gli ideali di cui egli parla, non siano e non debbano essere appannaggio esclusivo dei “costituzionalisti”. Proprio dalla rilevazione della necessità di penetrazione della Carta costituzionale nel diritto amministrativo nasceva la rottura delle letture continuiste dello Stato (la Costituzione “che passa sopra gli apparati amministrativi senza toccarla”) e in particolare di quelle che preservavano (ma in parte preservano ancora) autorità e statalismo in nome della specialità: nasceva in altre parole “la necessaria discontinuità”.

         Come non essere piuttosto d’accordo con Friedhelm Hufen che, andando oltre la nota formula del Verwaltungsrecht als konkretisiertes Verfassungsrecht (Fritz Werner, 1959), ha affermato di recente (nel volume a più mani Strukturen und Perspektiven des Verwaltungsrechts) che “il diritto costituzionale è in continua evoluzione e porta un cambiamento duraturo nel diritto amministrativo” e che “il diritto amministrativo e il diritto costituzionale sono esposti a un cambiamento comune e costante di fronte alle sfide moderne”?

         A me pare anche che l’ingegneria costituzionale senza quella amministrativa produca uno iato più forte di quello che oggi di fatto si crea tra le disposizioni di iniziativa o di fonte governativa e la loro attuazione per opera degli apparati amministrativi (tra politiche dichiarate e politiche realizzate), di cui agli inizi si discorreva.

         Del resto, anche senza ricorrere al “fluido e affollato intrecciarsi di linee e di spazi” (Costa, nel Quaderno) e a voler conservare l’immagine orlandiana del tronco e dei rami, come disconoscere che si parla dello stesso albero?

         Insomma, nell’approccio un poco elitario di Zagrebelsky vi è un rischio di astrattezza (Cheli, 2023): il rischio di non vedere l’ideale (soprattutto quello diverso dal proprio) che sta dietro al reale, che è fatto per l’appunto anche di tecnicismi.

         Tra l’altro, siamo davvero sicuri che quelli che talvolta un po’ spregiativamente vengono chiamati tecnicismi siano davvero tali e non siano invece semplicemente il riflesso della specificità del giuridico (ora addirittura valorizzata negli stessi Stati Uniti dagli orientamenti di “New Formalism”)?

         Vogliamo trascurare la rilevanza costituzionale delle diatribe, i dilemmi, che circondano nozioni come l’interesse legittimo o la legittimazione a ricorrere contro la p.a.? Dovrebbe bastare considerare l’espansione di quest’ultima, soprattutto nella materia ambientale, sotto la spinta al rafforzamento della validità del diritto oggettivo dell’Unione, che anche fuori dal confine nazionale porta a ritenere molto discutibile “che, sulla scia di Aarhus e delle azioni rappresentative, a gruppi sempre più potenti ma non legittimati democraticamente venga concesso il potere di far passare le proprie idee di politica ambientale e dei trasporti senza tener conto delle preoccupazioni soggettive dei loro membri” (ancora Hufen, ricordando che la soggettivizzazione della tutela giuridica corrisponde a un imperativo democratico).

         In conclusione, e riprendendo il filo, a prendere per buona la tesi di Zagrebelsky la “divaricazione” tra diritto costituzionale e diritto amministrativo sarebbe motivo di continuità della necessità … di una discontinuità, pena il loro “sicuro, reciproco, impoverimento” (Cammelli, nel Quaderno).

         Semmai, il “diritto pubblico” è un’operazione parziale: solo una tappa verso l’abolizione degli aggettivi, degli steccati disciplinari che hanno contribuito a tenere in vita specialità normative in contrasto con l’unità dell’ordinamento e anche con la parcellizzazione degli individui e delle loro relazioni giuridiche (gli sportivi, soggetti di un ordinamento diverso da quello dello Stato, ma in generale, superando l’esempio che mi è caro, gli amministrati, non degni di un rapporto giuridico con la p.a. – sia detto marginalmente, come faccia a sopravvivere la responsabilità aquiliana di quest’ultima, addirittura dopo la novella dell’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo, fa proprio parte degli arcana imperii –).

         Come dimenticare allora il programma “un soggetto un diritto un giudice” (Orsi Battaglini)? Cosa è questo programma se non, parafrasando giust’appunto Zagrebelsky, una concezione nutrita di riflessioni giuridiche radicate nel pensiero politico e filosofico (una concezione che vede e mette l’individuo – ma va bene anche l’uomo o la persona – alla base di tutto il diritto)?

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