Quale “sicurezza” dietro il decreto-legge n. 48 del 2025?

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di Giorgio Repetto

Università degli Studi di Perugia

1. Nel dibattito che si è scatenato negli ultimi tempi sul “decreto sicurezza” (d.l. n. 48 del 2025, conv. in legge n. 80 del 2025), c’è un elemento che stupisce.

Sebbene, in passato, non siano certamente mancate occasioni per rilevare tanto gli abusi della decretazione d’urgenza, quanto il ricorso sempre più frequente e massiccio all’inasprimento delle risposte penali per affrontare problemi di ordine pubblico e sicurezza, mai si era registrata una così ampia e articolata convergenza di voci critiche sulle procedure seguite e sui contenuti fatti propri da una maggioranza di governo nel condurre in porto un (ennesimo) “pacchetto sicurezza”.

Per stare solamente alle voci meno lontane dai lettori di questo blog, basta ricordare l’appello firmato da 237 giuristi con cui si sono rilevate le gravi anomalie procedurali nell’adozione del d.l. n. 48 del 2025, oppure il significativo documento del direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, con cui si è dato conto della assai dubbia compatibilità dei contenuti del decreto (che arriva a introdurre ben quattordici nuove fattispecie incriminatrici, senza contare le varie aggravanti) con fondamentali principi costituzionali quali la riserva di legge in materia penale, l’offensività, la sussidiarietà e la proporzionalità delle risposte sanzionatorie.

In aggiunta a ciò, e prescindendo dai moltissimi interventi polemici apparsi nella stampa periodica, il direttivo dell’Associazione italiana dei costituzionalisti ha avviato una discussione su iniziativa del suo Presidente Renato Balduzzi, il cui contributo di apertura coglie il punto nevralgico dei problemi aperti dal d.l. n. 48 del 2025, vale a dire fino a che punto siano ancora tollerabili interventi che, in nome della “sicurezza”, incidano sulle basilari coordinate di fondo dell’edificio costituzionale, attinenti tanto agli equilibri della forma di governo, quanto al rispetto delle garanzie dei diritti fondamentali.

2. Ed effettivamente, da ogni punto di vista lo si voglia guardare, i problemi di compatibilità del decreto sicurezza con il quadro costituzionale sono molteplici e chiamano in causa qualcosa di più che il puntuale contrasto con questa o quella norma costituzionale, denotando una contrarietà a Costituzione così radicale da investire lo spirito del testo costituzionale o, se si vuole, le sue strutture portanti.

Il blog Diario di diritto pubblico, dopo aver pubblicato un primo commento di Gaetano Azzariti, si ripromette di ospitare ulteriori interventi sui profili maggiormente problematici del testo approvato.

È però necessario ricordare, almeno, che, se pure non è una novità che – come nel caso di specie – un disegno di legge governativo presentato alle Camere sia stato trasformato, nel corso dei lavori parlamentari, in un decreto-legge (Carnevale, Morrone), questa pare la prima volta in cui a tale distorsione si è giunti per un provvedimento che contiene una significativa mole di previsioni di natura sanzionatoria penale. Con l’effetto, si può aggiungere, di rendere ancora più gravi le tradizionali resistenze in ordine alla possibilità di introdurre norme penali con decreto-legge, alla luce dell’inevitabile difetto di conoscibilità che lo strumento porta con sé.

Ed è impossibile non prendere atto dei molteplici profili di incompatibilità che il d.l. n. 48 del 2025 mostra di avere nei confronti dell’art. 77 Cost., tanto più alla luce dell’interpretazione di esso che ha dato, nel periodo più recente, la Corte costituzionale. Basterebbe richiamare le generiche e indeterminate ragioni di necessità e urgenza evocate nel preambolo del decreto (che non si ha cura neanche di qualificare sempre come “straordinarie”, nel rispetto anche solo della lettera della norma), come anche la circostanza – anch’essa stigmatizzata da molti commentatori – che la decretazione d’urgenza è uno strumento strutturalmente inadatto a introdurre riforme di carattere ordinamentale come quelle recate nel decreto sicurezza, soprattutto in relazione all’introduzione delle nuove figure di reato. Basterebbe ricordare che la norma costituzionale, nel collegare il requisito della straordinaria necessità e urgenza a casi specifici e in vista di un’attività governativa che consiste nel provvedere, sottende chiaramente interventi di natura specifica e puntuale, in linea con l’idea che la decretazione d’urgenza sia un’eccezione rispetto all’ordinaria funzione legislativa del Parlamento. Non è infatti un caso che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 146 del 2024, abbia chiaramente affermato sul punto che “il Governo non può dare un’interpretazione talmente ampia dei casi straordinari di necessità e urgenza da sostituire sistematicamente il procedimento legislativo parlamentare con il meccanismo della successione del decreto-legge e della legge di conversione”.

Se, poi, dalla procedura seguita si passa ai contenuti, non si può non rilevare il difetto di omogeneità di un decreto tenuto insieme da ragioni ispiratrici assai diversificate (dall’inasprimento dei reati in materia di terrorismo alla tutela delle vittime dell’usura), che tuttavia esprimono – considerate unitariamente – il vero obiettivo di fondo dell’intervento governativo, rappresentato da un tentativo di ritornare a sovrapporre l’ordine pubblico materiale (equivalente ai presupposti della civile ed equilibrata convivenza) con l’ordine pubblico ideale, rappresentato da quei contenuti ritenuti coessenziali alle scelte di valore e agli indirizzi della maggioranza politica del momento.

Cosa, se non questo, tiene infatti insieme le nuove fattispecie di reato in materia di terrorismo, che anticipano la soglia della punizione alla detenzione di materiale contenente informazioni su armi ed esplosivi (art. 1), alla punizione come atti di violenza di condotte di disobbedienza civile come i blocchi stradali (puniti ora con la reclusione sino a un mese e la multa fino a 300 euro: art. 14)? E come inquadrare l’equiparazione delle rivolte nelle carceri alle condotte di resistenza passiva dei detenuti, anche ai fini della pena da comminare (art. 26), non diversamente da quanto avviene nei centri di trattenimento degli stranieri (art. 27)? E quale altro trait d’union è possibile individuare tra la previsione che introduce la detenzione in istituti di custodia attenuata per le detenute madri con figli di età inferiore a un anno (art. 15) e l’estensione del c.d. daspo urbano ai soggetti denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei 5 anni precedenti (art. 13)?

Per non parlare, infine, della mole di previsioni volte a rafforzare l’azione di contrasto al crimine delle forze di polizia, che talvolta trasmodano in misure “a protezione dei titolari della forza pubblica” (Morrone), come nel caso dell’ampliamento delle condotte scriminabili per gli agenti dei servizi di intelligence (art. 31) o dell’autorizzazione al porto d’armi senza licenza per gli agenti di pubblica sicurezza anche quando non sono in servizio (art. 28).

3. Di ciascuna di queste disposizioni è molto difficile – anche prescindendo dall’assenza dei presupposti giustificativi della decretazione d’urgenza – individuare gli elementi a sostegno della ragionevolezza delle relative scelte legislative, oltre che della proporzionalità delle sanzioni introdotte e dell’offensività delle nuove figure di reato.

Fermo tutto ciò, tuttavia, non può tacersi come, sui diversi fronti presi in esame, il decreto sicurezza interviene a consolidare un trend normativo ormai risalente, maturato nel momento in cui il diritto alla sicurezza si è affermato come la risposta a “una manifestazione inconscia di insicurezza che pretenderebbe di ottenere, da parte delle pubbliche istituzioni, una risposta certa in tempi rapidi come se si trattasse di un vero e proprio diritto a prestazione” (Pace). Nel valutarne i contenuti, quindi, non deve compiersi l’errore di pensare che ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito, se è vero che il ricorso al diritto penale simbolico, quando non al populismo penale, ha dato corpo a una spinta securitaria che è stata uno dei terreni d’elezione per sperimentare soglie sempre più elevate di trasgressione del sistema delle fonti, con particolare riguardo all’uso sempre più smodato dei poteri normativi del governo.

Quanti “pacchetti sicurezza” abbiamo sperimentato e (spesso) criticato negli ultimi anni, sebbene provenissero anche da governi di colore politico diverso?

Ora, non c’è dubbio che nel caso del d.l. n. 48 del 2025 si assiste a qualcosa di diverso, come se l’accumularsi di così tanti profili di contrarietà a Costituzione tramutino, progressivamente ma impercettibilmente, un problema di quantità in uno di qualità; come se diverse, ma in fondo isolate perché occasionali, situazioni di contrasto a Costituzione finiscano, col tempo e col loro incedere progressivo, per dare luogo a una situazione di più radicale e complessiva contrarietà a Costituzione, che chiama gli studiosi – e i pubblicisti in particolare – a ragionare con ancora maggiore urgenza sui rimedi per affrontare la situazione, se non per invertire la rotta.

Sul punto, è necessario chiedersi, innanzi tutto, quale contributo è possibile aspettarsi dalle istituzioni di garanzia.

Molto si è discusso, ad esempio, intorno alle condizioni per invocare – insieme ai tradizionali poteri di moral suasion, pur indubbiamente esercitati in questo caso – un più formalizzato esercizio dei poteri di controllo del Presidente della Repubblica, soprattutto con riguardo alla fase di emanazione del decreto-legge (Carnevale), più che dell’eventuale rinvio della legge di conversione.

Ed è ragionevole aspettarsi che, tra non molto, la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di singole disposizioni, dovendo affrontare sia i profili di merito delle misure introdotte, sia la legittimità dello strumento normativo prescelto e delle condizioni della sua introduzione. Anche su questo, tuttavia, benché il sindacato sui presupposti della straordinaria necessità e urgenza del decreto si sia fatto via via più stringente (fino a culminare nella richiamata sentenza n. 146 del 2024), è forse legittimo nutrire qualche dubbio sulla possibilità che la Corte vada al di là del controllo su singole disposizioni, senza potersi sobbarcare l’onere di ravvisare l’evidente mancanza dei requisiti in relazione al provvedimento nella sua interezza. E lo stesso è a dirsi per il requisito dell’omogeneità, che la Corte ha sempre valutato più severamente quando l’eterogeneità era causata dai contenuti immessi in sede di conversione, più che nel caso in cui questa era presente ab origine (in part. v. sentenza n. 151 del 2023).

4. Il contributo che può dare la riflessione scientifica, pertanto, sta sicuramente nel mettere in luce quali anticorpi possono venire dal sistema istituzionale. Ma sta anche nello sviluppare una riflessione condivisa sui nuovi equilibri che devono sorreggere il rapporto tra libertà e sicurezza.

Non c’è dubbio che rispetto ai dibattiti scatenati, una ventina di anni fa, nel momento in cui si facevano i conti con le misure post 11 settembre 2001, o, nel periodo più recente, per fronteggiare i fenomeni migratori, la sicurezza invocata in questa vicenda abbia una coloritura assai più tradizionale, perché tutta rivolta a tenere indenne una sfera pubblica ritenuta civile e rispettabile rispetto a prassi e fenomeni di degrado e di esclusione sociale, quando non a manifestazioni di dissenso politico-sociale.

Proprio per questa più evidente connotazione classista delle attuali spinte securitarie, è quindi necessario riprendere la discussione intorno al fondamento e ai limiti delle politiche di sicurezza, a partire dalla messa in discussione dell’idea che, in nome dell’equivoco “diritto alla sicurezza”, possano essere giustificate misure restrittive della libertà il cui esito ultimo è quello di approdare a un ordine pubblico connotato sempre più in termini ideali.

L’obiettivo, pertanto, è piuttosto quello di riaffermare con forza l’idea del costituzionalismo liberaldemocratico per cui la sicurezza è sì una finalità legittima dell’azione statale, ma solo nella misura in cui la sua tutela risulta preordinata a rendere effettivo il godimento dei diritti fondamentali. Dietro ai principi per cui l’intervento penale costituisce un’extrema ratio e le sanzioni che esso introduce devono rispondere al principio di proporzionalità si cela l’idea che la sicurezza non è un bene da perseguire come tale, ma uno dei presupposti per realizzare le condizioni di effettiva realizzazione delle libertà e dei diritti. E, accanto a ciò, è stato il costituzionalismo democratico-sociale ad arricchire di senso questi principi di stampo liberale, prevedendo che, nelle società di massa, la via principale per risolvere i problemi di ordine pubblico sia creare condizioni che assicurino, al di là della sola sussistenza materiale, la più ampia ed effettiva inclusione dei singoli e dei gruppi nelle reti di partecipazione e protezione sociale.

Al contrario, è sin troppo facile osservare come la recrudescenza degli strumenti sanzionatori a tutela dell’ordine pubblico sia rivolta oggi ad alimentare l’illusione che i rischi per la sicurezza delle persone provengano più dalle fasce deboli della popolazione o dalle minoranze politico-sociali che non dallo sfaldarsi di quei meccanismi d’inclusione a vocazione universalistica affidati alle misure di sicurezza sociale e ai servizi pubblici.

E proprio per questo, se esiste un bene sicurezza che merita piena tutela giuridica non è la nozione di essa che sia sinonimo dell’ordine pubblico, ma quella che si traduce nella sicurezza materiale dei beni, dei servizi e delle prestazioni che rendono effettivi i diritti sociali in condizioni di uguaglianza e di libertà.

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