Sanremo, qui non si parla di politica

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di Giulio Enea Vigevani

Breve riassunto, per i pochi che osano non guardare il festival di Sanremo e per i molti che dimenticano velocemente fatti in fondo di minimo conto.

«Qui non si parla di politica». La scritta che campeggiava nei bar italiani durante il regime era ben presente anche nelle menti e nei cuori degli organizzatori dello spettacolo canoro che segna idealmente la fine dell’inverno in Italia. A iniziare dal conduttore Amadeus, che alla vigilia dichiarava che non ci sarebbero stati gli eccessi degli anni precedenti e che non ci sarebbe stata politica quest’anno, solo musica.

Poi la realtà si è affrettata a non esaudire i desiderata dei vertici. Dalla telenovela della presenza dei trattori sul palco allo «stop al genocidio» pronunciato dal cantante Ghali al termine della sua esibizione, alla protesta dell’ambasciatore di Israele, l’attualità politica nella sua drammaticità è comparsa nello show, con ovvio corollario di polemiche.

E vi è stata una coda nello show domenicale, il giorno successivo alla finale, ove la conduttrice ha letto un comunicato stampa dell’amministratore delegato della RAI a sostegno di Israele, aggiungendo che quelle citate erano « le parole, che ovviamente condividiamo tutti, del nostro Amministratore Delegato Roberto Sergio» (“è un bel direttore”, avrebbe detto il geometra Calboni).

E poco dopo, la medesima conduttrice interrompeva un cantante che stava rispondendo a una domanda sugli effetti delle migrazioni sull’economia, in quanto «qui è una festa, siamo qui per parlare di musica e per divertirci, ci vorrebbe troppo tempo per approfondire questi argomenti».

Tutto normale, insomma, nonostante la gravità dei temi e una marcata tendenza al conformismo di chi gestiva i programmi. In fondo, nel lontano 1981, a Sanremo a Massimo Troisi fu data piena libertà di parlare di tutto salvo che di religione, politica, terrorismo, terremoto: «allora sto decidendo tra una poesia di Giovanni Pascoli e una di Carducci», concluse il grande attore.

E non stupiscono le polemiche che sono seguite, nemmeno la proposta del sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio Alessandro Morelli di introdurre una sorta di «Daspo» per gli artisti che usano i palcoscenici della Rai per fare politica: “Un artista lì fa musica, non fa politica”. 

In fondo, si potrebbe ben dire, queste idee, ben più delle canzonette, durano lo spazio di un mattino, per poi depositarsi nell’oblio delle tante sparate bizzarre che connotano il modesto dibattito pubblico cui siamo costretti ad assistere.

Tuttavia, anche queste vicende mi pare pongano qualche serio quesito sul piano giuridico.

Ne cito alcuni: quali obblighi hanno gli ospiti di un programma non informativo del servizio pubblico, come il festival o Domenica In? Può essere loro imposto di tacere su vicende di rilievo pubblico? E i conduttori?

Più in generale, la possibilità di manifestare il proprio pensiero è riservata agli ospiti dei programmi informativi, in presenza di un contraddittorio, o è estesa anche a coloro che esprimono opinioni, magari dissenzienti o addirittura urticanti, anche fuori dai contesti tradizionali?

Partiamo da un dato: in qualità di concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, la cui attività risulta disciplinata dalla legge, dalla Convenzione, dal Contratto di Servizio e, per i dipendenti, anche dal codice etico, la Rai ha specifici obblighi di imparzialità, indipendenza e pluralismo al fine di garantire il diritto dei cittadini a essere informati in modo plurale, corretto e obbiettivo e a formarsi una propria autonoma e libera opinione.

Questi obblighi prevedono, tra l’altro, che giornalisti e operatori del servizio pubblico siano tenuti a coniugare il principio di libertà con quello di responsabilità, ad assicurare un contraddittorio adeguato, effettivo e leale e a offrire spazio a tutte le correnti culturali presenti nella società (e non solo nella politica strettamente intesa).

Inoltre, direttori, giornalisti e conduttori del servizio pubblico esercitano una funzione pubblica, non sono «signori dello schermo» e non possono decidere liberamente quali opinioni diffondere, in che modo e quali omettere. E ciò non solo in periodo elettorale, quando la legge n. 28/2000 impone loro «di non esercitare, anche in forma surrettizia, influenza sulle libere scelte degli elettori», ma in generale, senza manifestare adesioni all’una o all’altra opzione politica in discussione.

In altri termini, un servizio pubblico ideale avrebbe il compito, in ogni programma, anche di intrattenimento, di portare nel maggior numero possibile di case quanto vi sia di meglio in ogni campo, riconoscendo il valore delle diversità, della contaminazione culturale, del pluralismo.

Di qui, da un lato la difficoltà di giustificare una sorta di censura preventiva, un generalizzato e pregiudiziale divieto per gli ospiti, specie in un programma di grandi ascolti, di manifestare le proprie opinioni, dall’altro l’obbligo per i conduttori di far conoscere la pluralità delle idee, dando voce a punti di vista differenti.

Del resto, nella pluralità di fonti che disciplinano i media di servizio pubblico non si rinvengono norme che impongono a ospiti e artisti di limitare le proprie esternazioni, salvo che in periodo elettorale, ove interventi a sostegno di una tesi su temi rilevanti debbono essere bilanciati con la rappresentazione di punti di vista alternativi, allo scopo di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione.

Così, l’appello di Ghali per la fine del genocidio (del tutto discutibile sul piano del merito, anzi a mio avviso sbagliato nella definizione di genocidio), così come le manifestazioni di protesta degli allevatori e, negli anni precedenti, i molti proclami a favore della famiglia tradizionale o delle nuove forme di convivenza, del diritto all’autodeterminazione della donna o della vita del nascituro, dei diritti dei migranti e di quelli degli “italiani veri”, debbono essere principalmente colti come occasioni per sensibilizzare il grande pubblico su questioni di grande rilievo e suscitare un dibattito nella società. Non vi è nulla né di illecito né che possa ragionevolmente condurre a un esilio di chi si esprime dal piccolo schermo.

Ciò che stona, invece, è l’intervento dall’alto di una autorità, in questo caso addirittura dell’amministratore delegato della Rai, che, con il plauso dei dipendenti, va in qualche modo a ripristinare una “verità ufficiale” che si contrapponga all’opinione “sbagliata” del giovane cantante. Anche qui non è una questione di merito: io per primo auspico che «ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi [ raccontino ] la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre» e ritengo che la solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica debba essere «sentita e convinta», come affermato dall’AD Rai. Mi pare, tuttavia, assai discutibile un servizio pubblico pronto a reagire con una posizione ufficiale quando si diffondono idee sgradite e non quando, ad esempio, chi è al governo invade il campo e propone liste di proscrizione o, più in generale, quando le voci del dissenso faticano a trovare spazio.

E ciò pone una questione allo stesso tempo antica e attuale relativa in particolare alla Rai. Da decenni, la nozione di pluralismo è interpretata come spartizione di spazi tra le forze politiche presenti in Parlamento, con evidente sacrificio di tutte quelle idee pur presenti nella società che non hanno un riferimento nell’uno o nell’altro partito. E, in effetti, i dibattiti e gli spazi nei telegiornali tendono a essere riservati a chi fa parte del sistema (siano essi politici o giornalisti d’area), con l’esclusione delle voci più critiche e dissonanti.

Ciò è ulteriormente accresciuto con la progressiva restrizione degli spazi di discussione all’interno del servizio pubblico. La fuoriuscita più o meno spontanea di personalità quali Fazio, Augias, Gramellini o Saviano non solo mostra un esteso controllo della Rai da parte della attuale maggioranza ma riduce gli spazi nei quali posizioni non riconducibili all’uno o all’altro schieramento possano trovare ospitalità.

E in questa prospettiva, la vicenda Ghali mostra, pur nei suoi aspetti circoscritti, la distanza tra il dover essere e l’essere del servizio pubblico e, più in generale, la difficoltà a concepire un contraddittorio aperto e plurale e, con un linguaggio novecentesco, una “televisione dell’accesso”. Con le parole di una sentenza della Corte costituzionale che compie mezzo secolo, sembra sempre più un miraggio un servizio pubblico il cui esercizio «sia preordinato a due fondamentali obbiettivi: a trasmissioni che rispondano alla esigenza di offrire al pubblico una gamma di servizi caratterizzata da obbiettività e completezza di informazione, da ampia apertura a tutte le correnti culturali, da imparziale rappresentazione delle idee che si esprimono nella società; a favorire, a rendere effettivo ed a garantire il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici». I mezzi tecnici consentirebbero certo il massimo accesso ma, per dirla con Troisi, la scelta resta solo tra Pascoli e Carducci.

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