Un divertente viaggio nella burocrazia nazional-popolare che non farò mai più

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di Gianluca Gardini

Alla Cortese attenzione del Direttore Generale

per la formazione universitaria, l’inclusione e il diritto allo studio,

Dott.ssa M. G.

MIUR – Ministero dell’università e della ricerca

Oggetto: Ricorso in via gerarchica contro il silenzio-inadempimento dell’Ufficio VI– EX DGSINFS, Direzione generale degli ordinamenti della formazione superiore e del diritto allo studio.

Gentile Direttore,

mi permetto di rivolgermi a lei dopo aver sperimentato, a più riprese e in un arco temporale ormai prossimo ai sei mesi, il contatto diretto con il “regime burocratico”, caratterizzato da insondabilità e opacità dell’agire pubblico.

La sensazione che ne ho riportato è quella tipica di chi si trova a vivere, in prima persona, i topoi della letteratura anti-utopica, universalmente noti (dal Castello di Kafka al Grande fratello di Orwell). Novello Joseph K., dopo aver insegnato per decenni a studenti e funzionari i pericoli di una burocrazia nascosta, incomprensibile, alienante e disumanizzante, ho potuto toccare con mano – quasi che la sorte mi volesse concedere, dopo tante prediche, l’opportunità di arricchire l’analisi teorica con l’esperienza pratica – lo stretto legame che unisce segretezza e potere, di fronte al quale il cittadino torna ad essere suddito e precipita, d’un sol colpo, indietro di due secoli.  Un potere minore, sia chiaro, poco più che borgataro, esercitato in virtù di una conoscenza “propria” di qualche funzionario che male accetta la condivisione delle informazioni ed è spinto ad operare in un ambiente “opaco”, dove il segreto non è più segreto di Stato di massonica memoria ma, più banalmente, segreto di ufficio.

Purtroppo mi rincresce doverle dire, giunto a questo punto della narrazione, che i funzionari al centro di questa anacronistica e odiosa vicenda di arcana imperii sono incardinati in una delle strutture da lei dirette (Direzione generale degli ordinamenti della formazione superiore e del diritto allo studio, Ufficio VI – EX DGSINFS), e sono quindi posti alle sue dirette dipendenze. Di qui la mia richiesta accorata affinché lei si attivi per risolvere, grazie al suo ruolo e soprattutto al buon senso, quello che non è solo mio problema, ma di tutti i cittadini italiani.

Il punto di fondo di questa missiva, infatti, non è tanto sbrigare una questione personale, quanto mondare l’immagine di inutilità che il Ministero dell’Università (a causa di alcuni elementi che, sono sicuro, essere in via di estinzione in una pubblica amministrazione che si appresta alla sfida europea del PNRR) proietta attualmente all’esterno: presso la comunità dei docenti che rappresenta e presso la società tutta, che pretende oggi un’amministrazione efficiente, trasparente, collaborativa e persino digitale. Un’immagine davvero inaccettabile in periodi di transizione come quello che stiamo attraversando, dove tutte le energie sane – soprattutto quelle pubbliche – devono essere rivolte al cambiamento e nessun sospetto dovrebbe scalfire l’ottimismo necessario alla ripresa.

La vicenda è piuttosto semplice, ma non per questo meno spiacevole. In data 5 agosto 2021 scrissi all’ Ufficio sopra menzionato per richiedere certificazione o copia del mio titolo di Dottore di ricerca (in Diritto pubblico, VI ciclo), ottenuto nel lontano 1995 presso la sede amministrativa dell’Università di Bologna, con esame finale sostenuto presso l’Università di Pisa. La richiesta traeva origine da un invito dell’Università Cattolica di Lima, Perù, che mi proponeva di insegnare ad un master online da essa organizzato, e per formalizzare la mia nomina a docente richiedeva – pena impossibilità di procedere – un attestato ufficiale della mia qualifica di Dottore di ricerca. Un bell’esempio di complessità sudamericana, parente stretta del realismo magico, che rende meravigliosamente intricata la vita sotto l’equatore, visto che il titolo di professore ordinario supera e contiene quello di Dottore di ricerca. Ma tant’è, avevo promesso da tempo ai colleghi la mia disponibilità ad insegnare nel Master.

Avendo smarrito, nel corso degli anni e dei numerosi traslochi fatti, il certificato sostitutivo a suo tempo ritirato presso la biblioteca di Firenze, a fine agosto 2021 mi decisi a scrivere all’Ufficio postlaurea del MIUR per sapere se, cortesemente, fosse possibile spedire via posta la pergamena ufficiale (previo pagamento dei bolli e spese di spedizione, naturalmente) o una attestazione di qualunque genere dalla quale risultasse il mio titolo di dottore di ricerca. “Spedire”, ricordo bene che scrissi, non forgiare nell’acciaio degli altiforni di Arcelor.

Da quel momento inizia il mio viaggio surreale nei recessi della burocrazia ministeriale, un’esperienza kafkiana d.o.c. di alienazione e frustrazione dove l’uomo medio, normodotato, prova a confrontarsi con un apparato che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana, fino ad annichilirlo. La riporto, di qui in avanti, utilizzando il tempo presente, in spregio alla consecutio, perché le sensazioni spiacevoli che ne ho tratto sono ancora vivide nella mia memoria.

Non è esagerato parlare di annichilimento di fronte alla prima reazione dell’“Ufficio VI” (sic! senza alcuna firma o responsabile del procedimento indicati in calce) che, a fronte della mia richiesta di certificare in qualche modo l’esistenza del mio diploma di Dottorato, risponde a stretto giro quanto segue:

“Gent. prof. Gardini,

per il ritiro del diploma di dottorato ma anche per il rilascio di un certificato da parte di questo ufficio, è necessario presentare il certificato sostitutivo rilasciato dall’università sede dell’esame finale. In caso di smarrimento del documento può essere richiesta una copia o l’emissione di un nuovo certificato da parte dell’università”.

Incoraggiato da questa pronta ancorché incomprensibile risposta, scrivo allora altrettanto tempestivamente all’Università di Pisa, sede amministrativa presso cui sostenni all’epoca l’esame finale, per sapere se potesse lei, e non il Ministero, emettere una copia del mio titolo di dottorato. L’università di Pisa, facendo sfoggio di logica ineccepibile, mi risponde che, per scelta coerente ai principi di semplificazione e sburocratizzazione, da anni non rilascia più certificati o attestazioni da presentare ad altre pubbliche amministrazioni (in questo caso il Ministero), in quanto sostituiti completamente dalle autocertificazioni. E, per suffragare questa sua decisione, mi invita leggere alcune disposizioni del Codice della documentazione pubblica (DPR 445/2000), a cui, nella mia qualità di docente di diritto amministrativo, avrei peraltro dovuto pensare da solo.

Non mi resta altro, di fronte a tanta bassaniniana razionalità, che far presente all’Ufficio VI la situazione di stallo (l’università non fornisce al Miur informazioni che quest’ultimo dovrebbe già avere in pancia) e allego via mail la pagina web in cui la posizione dell’Università di Pisa è illustrata con precisione disarmante. Chiedo poi cortesemente all’Ufficio VI, quasi supplicandolo (o supplicandola, non conoscendo il genere preciso dell’umano alla guida della macchina) di aiutarmi ad uscire da questo vicolo cieco, apparentemente senza uscita. La mia tattica di ripiegamento consiste, da questo momento in poi, nel fare appello al buon senso dell’innominato funzionario/a che si cela dietro l’istituzione: chiedo pertanto che, dopo aver verificato la mia identità (anche con SPID, se necessario) e il mio curriculum accademico, l’Ufficio mi consenta di ottenere una copia del Diploma di dottorato anche in mancanza di un certificato sostitutivo che, a questo punto, non mi è più possibile produrre. In chiusura, per aggiungere una nota costruttiva (e anche virile) a una missiva dal tono sostanzialmente remissivo e prono, mi permetto di suggerire all’Ufficio VI di indicare sempre un nome in calce alle risposte, come prevede la normativa sul responsabile del procedimento (legge 241/90), onde evitare al cittadino di scontrarsi con un’entità indefinita e consentirgli una maggiore personalizzazione nelle relazioni con l’amministrazione. Le bacchettate giuridiche dell’Università di Pisa non si erano rivelate inutili, in fin dei conti. Rileggo il tutto, mi sembra uno scritto convincente e equilibrato, per cui lo invio senza ulteriori indugi.

La risposta dell’Ufficio VI, sempre senza firma in calce in sfidante provocazione, non si fa attendere:

Gent. dott. Gardini,

 ai fini del rilascio del certificato di dottorato da parte dell’ufficio, è necessario inviare una richiesta formale all’indirizzo indicato in calce, accompagnata da fotocopia documento di identità e n. 2 marche da bollo da € 16,00 e autocertificazione ai sensi del DPR 445/2000 relativa a: denominazione del corso di dottorato e università sede amministrativa del corso, data di superamento esame finale, università sede esame finale.

Se invece intende ritirare il diploma originale, non potendo esibire il certificato sostitutivo richiesto, dovrà inviare un’autocertificazione come sopra indicato e, previa verifica da parte di questo ufficio presso l’università sede dell’esame finale, potrà ritirare il diploma presso i nostri uffici all’indirizzo in calce (previo appuntamento), presentando documento di identità e una marca da bollo da € 16,00.

Cordiali saluti

Ufficio VI”.

Per prima cosa noto con fastidio che quasi trent’anni di sacrifici e una mezza dozzina di concorsi sono ridotti in poltiglia dalla risposta piccata del funzionario-Ufficio VI, che non deve avere gradito le mie richieste né tantomeno i miei suggerimenti professorali.

Mi toglie infatti i gradi seduta stante (nella prima mail mi apostrofava con “Gentile professore”) e, svilendomi a semplice dottore, punta chiaramente a indebolire la mia autostima. La ostinata mancanza di firma in calce, poi, mi deprime come una sentenza di condanna. La parte che segue, tuttavia, è musica per le mie orecchie: l’autocertificazione esiste ed è praticata anche dall’amministrazione italica, quella statale e non solo quella protetta dell’autonomia universitaria. Non fosse per le marche da bollo di paleolitica memoria, e per l’Ufficio VI naturalmente, sembrerebbe quasi di avere di fronte un’amministrazione moderna e collaborativa, persino capace di abbandonare gli schemi predefiniti dinanzi a circostanze che oggettivamente lo richiedano. Mi chiedo per un attimo perché l’Ufficio VI non mi abbia da subito, spontaneamente, suggerito di percorrere la strada dell’autocertificazione, ma questo sofisticato dubbio viene prontamente ricacciato indietro dalla ragion pratica.

Scrivo allora una bella autocertificazione con tutti i riferimenti normativi, come quelle che si insegnano ai funzionari che vogliono fare carriera, chiamo al telefono un paio di colleghi per ricostruire le date della discussione del dottorato (30 novembre 1995, all’epoca con commissione e sede nazionale), fotocopio il documento di identità, e mi precipito dal tabaccaio per acquistare busta, francobolli e, soprattutto, due marche da bollo da 16 euro. È il 17 settembre 2021, ed io sono molto euforico perché sento avvicinarsi la vittoria sui servizi burocratici. Tuttavia, non mi abbandona la fastidiosa sensazione che in tutta questa produzione di carta bollata e invio di documenti cartacei ci sia qualcosa che non torna, un punto che in qualche modo stride con quanto da anni predichiamo circa l’amministrazione digitale, la semplificazione, la relazione inclusiva con il cittadino e l’inquinamento del pianeta. Ma metto a tacere anche questa stolida vocina, e con spirito franco infilo la busta nella cassetta postale più vicina, destinazione “fuori città”.

A tre settimane dall’invio della carta bollata, in assenza di qualsiasi notizia da parte dell’Ufficio VI, mi assale un orrendo sospetto. E se la busta non fosse mai arrivata? Se avere indicato solamente l’ufficio nell’indirizzo di spedizione non fosse stato sufficiente? Se un postino scaltro e vizioso avesse fiutato la presenza di due preziose marche da bollo da 16 euro all’interno della busta e le avesse rubate?

Preda di questi dubbi notturni, il 4 ottobre decido di scrivere una nuova mail all’Ufficio VI, chiedendo notizie della mia istanza, abbandonata per settimane senza riscontro. Nel frattempo, l’avvio del Master incombe, e la segreteria peruviana mi scrive a intervalli regolari per avere notizie del certificato di dottorato, considerata l’imminenza delle lezioni.

A strapparmi da queste domande angosciose interviene un fatto nuovo, un evento che per un attimo mi induce a credere che la nostra Pubblica amministrazione rappresenti ancora una risorsa, non solo il problema che tutti dicono essere. L’Ufficio VI non solo mi risponde, a distanza di soli due giorni, ma scrive quanto segue:

“Gent. dott. Gardini,

siamo in attesa di conferma di quanto dichiarato con autocertificazione relativamente all’esame finale da parte dell’università di Pisa.

Il certificato sarà inviato all’indirizzo da lei indicato e anticipato via email.

Cordiali saluti.

M….. C…….”

In un primo momento, stento a trattenere le lacrime dall’emozione: non solo hanno ricevuto tutto l’incartamento e i bolli, ma la persona che mi risponde si firma con tanto di nome e cognome. L’Ufficio VI, finalmente, acquista un volto ai miei occhi, un volto femminile e gentile per di più. E probabilmente ha anche deciso di ascoltarmi, penso soddisfatto, visto che la funzionaria si dice pronta a anticipare “via mail” il documento richiesto. Poco importa se continuo a essere per lei un semplice dottore, a dispetto di varie monografie e concorsi accademici, ciò che davvero conta è ottenere l’ambito certificato. Non vale nemmeno la pena di soffermarsi troppo sul paradosso per cui l’Ufficio del Ministero che detiene nei suoi archivi il mio Diploma di dottorato sostiene che, per poter attestare l’esistenza di tale Diploma, deve prima aver conferma del conseguimento del titolo da parte dell’Università di Pisa, presso cui ho discusso la mia tesi trent’anni prima. Posso tornare a dormire sonni tranquilli, mi dico, l’arrivo del certificato è comunque imminente.

Ma le mie speranze sono destinate a essere nuovamente frustrate. Trascorrono altre due settimane, senza segnali di vita. Il mio umore peggiora gradualmente, finché il 21 ottobre sono costretto a importunare di nuovo la gentile funzionaria, visto che il Master dell’Università di Lima inizia di lì a qualche giorno. Le scrivo un sollecito. Passa un’altra settimana. Nessuna risposta, silenzio di tomba.

Forse Pisa ha perso il faldone con i miei dati, penso sgomento.

Nel frattempo i problemi urgenti mi incalzano: 40 studenti peruviani attendono le mie lezioni online che, in assenza di certificato sostitutivo, l’Università di Lima non mi permette di tenere.

Inizia allora un fitto scambio con la segreteria dell’Università sudamericana, che si conclude dopo circa una settimana con una soluzione pragmatica, partorita dal buon senso dei miei interlocutori.  La burocrazia peruviana, cosa difficile da credere, si dimostra più flessibile e efficiente della nostra, e decide di ammettermi, seppure in via eccezionale, tra i suoi “professori visitanti” pur in assenza di una documentazione conforme. Per quest’anno, sia chiaro, in attesa dell’invio di una certificazione ufficiale ex post. Sono salvo, e al contempo incredulo di fronte a questa schiacciante superiorità della creatività latina sulla meccanicità della burocrazia nazional-popolare.

Ma la battaglia di principio con il Ministero resta aperta, il certificato di dottorato non è mai arrivato, nonostante i bolli.  Attendo un altro mese, e il 15 novembre invio l’ennesimo sollecito alla solerte funzionaria dell’Ufficio VI. Da quel momento in poi, silenzio siderale. Nessuna risposta, nemmeno interlocutoria, a tutt’oggi.

Siamo così giunti all’epilogo. In conclusione di questa lunga lettera, gentile Direttore, sono a chiederle di voler intervenire per porre fine a questo prolungato silenzio-inadempimento dell’Ufficio posto sotto la sua direzione, che a distanza di quasi sei mesi dalla prima richiesta (5 agosto) e a distanza di due mesi e mezzo dall’invio della documentazione cartacea richiesta (17 settembre) non è stato in grado di inviarmi un solo messaggio di posta elettronica, un appunto, un dato informale dal quale risulti la presenza presso gli archivi di quell’Ufficio del mio Diploma di dottorato. Termini procedimentali, comunicazione di avvio e responsabile del procedimento, neanche a parlarne. L’aspetto più paradossale della vicenda, a mio avviso, è che l’Ufficio in questione sostiene di dover ricevere conferma dall’Università di Pisa circa l’esistenza di un titolo (diploma di dottorato) che è presente da anni nei propri archivi. Un documento che si trova pertanto nella sua piena e diretta disponibilità, e che tuttavia l’Ufficio VI, dopo avermi costretto ad inviare un plico in carta bollata quasi tre mesi or sono, dice di non essere in grado di attestare autonomamente.

Visti i fatti, gentile Direttore, le chiedo di intervenire per porre rimedio a questa e altre storture simili, per fare sì che i cittadini, partendo dalle piccole cose, possano avere più fiducia nell’amministrazione e per indurre l’amministrazione a tenere un atteggiamento più trasparente, collaborativo, moderno, all’altezza delle sfide che la aspettano.

La prego pertanto di considerare questo scritto come un ricorso a lei rivolto in via gerarchica, cui spero vorrà dare pronta risposta evitandomi il dispiacere, umano e professionale, di ricorrere anche al Ministro competente, al Tribunale amministrativo del Lazio, e, come ultimo ripiego, a qualche organo di stampa o testata televisiva.

Certo della sua attenzione, le porgo i migliori saluti

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