Uscire dal debito

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di Pierluigi Ciocca, Accademia dei Lincei

Pare che il debito pubblico globale travalichi ormai 300 trilioni di dollari, all’incirca il triplo del Pil del mondo. Il debito non è alto ovunque, ma persino fra le economie avanzate tocca rispetto al Pil un picco del 260% in Giappone, sfiora il 130% negli Stati Uniti, nell’intera area dell’euro si situa appena al disotto del 100%. Sempre nell’Euroarea gli stati più indebitati sono la Grecia (170%), la Francia (120%), la Spagna (113%) e, ormai da decenni, l’Italia (137%).

L’alto debito è fonte di iniquità, perché fa ricadere sulle generazioni future oneri di bilancio imputabili a genitori e nonni, sebbene figli e nipoti erediteranno cespiti privati anche di molto superiori all’onere del debito pubblico. Nel caso italiano 10 trilioni di patrimoni delle famiglie, reali e finanziari, stanno a fronte di 3 trilioni di euro di debito pubblico.

L’alto debito è altresì fonte di instabilità dell’economia e ne frena la crescita perché rende insicure le aspettative, innalza il costo del danaro, deprime consumi e investimenti, assorbe risorse utilizzabili in modi più produttivi.

In Europa ci si è posti il problema sin dagli accordi di Maastricht stilati nel febbraio del 1992, fondati sull’impegno dei governi nazionali di contenere il disavanzo pubblico entro il 3% del Pil e il debito pubblico entro il 60% del Pil, convenzionali valori. Nonostante l’irrigidimento dei vincoli in anni successivi, nella maggior parte dei paesi dell’Eurozona l’impegno è stato disatteso e il debito pubblico è oggi rispetto al Pil più elevato che un quarto di secolo fa. L’insuccesso è dovuto a molteplici fattori, non soltanto alla sospensione dei vincoli di fronte all’epidemia di covid-19 esplosa agli inizi del 2020 e non ancora del tutto debellata.

Venuta meno la breve sospensione, per i paesi europei con bilancio e debito debordanti il 3% e il 60% del Pil si applicheranno regole non meno rigorose delle vecchie, anche se operanti nel tempo con una gradualità scandita da piani pluriennali tarati sulle singole economie e verificati dalla Commissione europea. Un tale compromesso è stato promosso financo dal responsabile dell’economia nella Commissione europea, l’ex Presidente del consiglio Gentiloni, del PD.

Permarrà, tuttavia, il rischio che la finanza pubblica abbia effetti restrittivi sulla domanda interna e sulla crescita, come è avvenuto dal 2000 al 2019 nell’intera Euroarea, Germania compresa.

Al di là dei dettagli, i nuovi criteri non sono affatto nuovi nell’aspetto principale. La riduzione del debito resta affidata al contenimento del disavanzo complessivo nel bilancio delle Pubbliche Amministrazioni, prescindendo dalla composizione delle entrate e soprattutto da quella delle spese. In particolare, ai fini del rispetto dei parametri obbligatori la spesa in conto capitale (un treno) viene, con limitate eccezioni, equiparata alla spesa corrente (la carta igienica nella toilette del treno).

L’errore di fondo dei responsabili europei consiste nell’ostinarsi a rifiutare ovvero nel non aver letto, e capito, la soluzione indicata da Keynes, massimo tra gli economisti, nel capolavoro del 1936 e negli scritti successivi fino alla sua scomparsa nel 1946[1].

Per frenare il debito pubblico, da lui aborrito, Keynes suggerisce di mantenere in pareggio la parte corrente del bilancio, così da evitare che un eccesso delle uscite sulle entrate incida sul risparmio nazionale. Nella sezione in conto capitale del bilancio, invece, gli investimenti possono inizialmente e temporaneamente eccedere le entrate. La condizione è che si tratti di investimenti in infrastrutture, materiali o immateriali, utili ai cittadini e capaci di moltiplicare l’occupazione e la produttività, quindi il Pil, così da generare nel medio periodo un gettito fiscale pari alla spesa d’investimento originaria. Se la spesa per investimenti così si autofinanzia, l’intero bilancio – parte corrente e parte in conto capitale – sarà in equilibrio, senza nuovo debito.

L’assunto di Keynes è che l’effetto moltiplicatore del Pil innescato dagli investimenti sia ragionevolmente elevato. Allora, il bilancio essendo in equilibrio, il debito, invariato, scenderà in rapporto al Pil, divenendo sostenibile. Ciò avverrebbe se, ad esempio, il moltiplicatore fosse pari o superiore a due (con 1 di spesa per investimenti che genera un maggior Pil almeno eguale a 2) e il maggior gettito traibile dall’aumentato Pil fosse prossimo alla spesa iniziale.

Sono realistiche queste ipotesi?

Secondo le stime econometriche ufficiali più accreditate, quelle del Fondo Monetario Internazionale, le ipotesi di Keynes sono non solo realistiche, ma anche più favorevoli di quelle dell’esempio[2].

Nel caso italiano la proposta di Keynes è da realizzare. L’ economia del Paese ristagna da trent’anni e ancora nel 2023, nonostante il rimbalzo post-Covid, ha prodotto quanto produceva nel 2006, con produttività delle risorse di capitale e lavoro tuttora in tendenziale flessione. Buoni investimenti sarebbero di sostegno.

La proposta di Keynes è realizzabile, perché la parte corrente del bilancio italiano non è strutturalmente lontana dal pareggio: nel 2023 si è registrato un avanzo di 13 miliardi, che è seguito a disavanzi di 30 miliardi nel 2021 e di 24 miliardi nel 2022. Inoltre dal lato delle uscite correnti sussistono ampi spazi di riduzione, senza incidere sulla spesa sociale (sanità, assistenza, pensioni, stipendi). Vanno ridotte le decine di miliardi di trasferimenti a imprese e ad autonomi, come pure le decine di miliardi di evasione di imposte e contributi da parte di imprese ed autonomi, comprese attività sommerse o “in nero” non inferiori al 10% del Pil.

Vanno invece notevolmente accresciuti gli investimenti pubblici. Le maggioranze di qualsivoglia colore e i governi “tecnici” li hanno tagliati di un terzo dal 2009 alla vigilia del covid. E ciò è avvenuto in un paese dove strutture sanitarie, fragilità del territorio, ambiente, Mezzogiorno, istruzione e ricerca ne richiedevano, e ne richiedono con urgenza, il potenziamento. Questo sembra oggi affidato al PNRR, che tuttavia non vede i tanti danari concessi dall’Europa accentrati in pochi grandi progetti, ma dispersi in mille rivoli, spesi con forte ritardo al ritmo di una ventina di miliardi all’anno (non più dell’1% del Pil).

Non si può non essere critici di questa Europa, e preoccupati per il futuro.

[1] J.M. Keynes, The General Theory of Employment Interest and Money, Macmillan, London 1936 e Activities 1940-1946, in Collected Writings of J.M. Keynes, XXVII, Macmillan, London, 1980.

[2] Il Fondo stima un moltiplicatore più alto di 2 a partire da IMF, Is It Time for an Infrastructure Push? The Macroeconomic Effects of Public Investment, in “World Economic Outlook”, Washington, October 2014. L’economista del Fondo era allora Olivier Blanchard.

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