“Ben tornato Stato, ma forse non è mai scomparso”

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di Marcello Clarich

Ben tornato Stato, ma” è il titolo di un volume di Giuliano Amato[1], la cui tesi principale è che il ritorno dello Stato nella fase storica attuale, che pur va salutato positivamente, non deve riprodurre gli eccessi e vizi del passato. Ma forse un interrogativo parallelo da porre, se si guarda all’esperienza italiana, è se lo Stato abbia davvero allentato la presa sulla società e sull’economia abbracciando l’ideologia neo-liberale.

Intanto, il nostro Paese non ha conosciuto rivoluzioni come quelle impresse negli anni Ottanta del secolo scorso da Margaret Thatcher nel Regno Unito e da Ronald Reagan negli Stati Uniti. La spinta alle liberalizzazioni di molti servizi a rete alla fine degli anni Novanta del secolo scorso è stata indotta in Italia dalle direttive europee, più che essere il frutto di un ripensamento sull’opportunità di mantenere in vita i regimi di monopolio legale. Le stesse privatizzazioni (Autostrade, Telecom), che si prestano peraltro a critiche per il modo in cui sono state attuate, sono state dettate soprattutto dalla necessità di far cassa, in una fase drammatica di crisi della finanza pubblica all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. A livello locale, i comuni hanno mantenuto il controllo sulle aziende che gestiscono i servizi pubblici. Persino la recente riforma (d.lgs. n. 201/2022), nonostante le indicazioni contenute nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, non ha introdotto argini significativi alle gestioni in house.  Una legge antitrust (l.n. 287/1990) è stata approvata con molto ritardo rispetto ad altri paesi europei. Le stesse autorità indipendenti istituite in parallelo ai processi di liberalizzazione sono state viste, specie nei primi anni, come un corpo estraneo al sistema. Le loro segnalazioni indirizzate al governo e al Parlamento contenenti critiche a normative in fase di approvazione sono state accolte spesso con fastidio o come ingerenze indebite da esponenti politici e da rappresentanti di imprese.

Quando si parla di liberismo e di fine del laissez faire occorre, in realtà, distinguere tra le esperienze dei vari paesi. Lo Stato francese, forse ancor più di quello italiano, è stato restio ad allentare la presa sul sistema economico e sulla società e a rinunciare a una propria politica industriale, se mai da allargare su scala europea.  Quanto meno però poteva e può contare su una capacità amministrativa e su una classe dirigente (si pensi all’ENA e alle grandes écoles) in grado di gestire in modo efficiente le imprese e i servizi pubblici. In Germania, il modello dell’economia sociale di mercato affermatasi nel secondo dopoguerra secondo i principi dell’ordo liberalismo ha fatto da argine sia nei confronti dello statalismo e del dirigismo, sia nei confronti del “mercatismo”. Del resto, secondo osservatori attenti (M. Thatcher, 2014), anche negli anni ruggenti della deregulation gli Stati (Regno Unito incluso) in realtà hanno perseguito obiettivi politica industriale, sia pur per così dire sotto traccia. Infatti, le privatizzazioni, la delega di poteri su fusioni e acquisizioni all’UE, le regole europee per aprire i mercati e garantire la concorrenza, il divieto di aiuti di Stato e le altre componenti dello Stato regolatore hanno fornito agli Stati leve aggiuntive o alternative per favorire le imprese campione nazionali ed europee o internazionali.

Ritornando all’Italia, la matrice dirigista e statalista di gran parte della classe politica ha caratterizzato, senza soluzione di continuità la fase del ventennio autoritario e anche quella dei decenni successivi, all’insegna dello Stato interventista e anche pianificatore. La cultura liberale e liberista di impostazione einaudiana è rimasta sempre minoritaria, contestata con pari vigore da destra (statalismo e corporativismo, anche nella variante del cattolicesimo), come da sinistra (marxismo, socialismo).

Si potrebbe forse affermare che il ventennio a cavallo del vecchio e del nuovo secolo, prima della crisi finanziaria del 2008-2011 e degli eventi successivi (rivolgimenti geopolitici, pandemia), abbia costituito una sorta di parentesi che non ha modificato il DNA nazionale. Basti considerare, per venire ai giorni nostri, la difesa a oltranza di categorie privilegiate (concessionari balneari, tassisti, farmacisti, insegnanti, ecc.) da parte di uno schieramento politico trasversale, nonostante le ripetute sollecitazioni a introdurre riforme strutturali provenienti in particolare dall’Unione europea, non già all’insegna del “liberalismo selvaggio”, ma volte ad aprire spazi a una competizione sana e alla valorizzazione del merito.

Un altro aspetto da considerare è che il ritorno dello Stato non sembra essere dettato soltanto dalla crisi del modello liberista.  Quest’ultimo è stato certamente messo in discussione soprattutto in seguito alla crisi finanziaria del 2008, come del resto già accaduto, a suo tempo, in conseguenza della Grande Crisi del 1929. A livello internazionale, il cosiddetto Washington consensus (espressione coniata nel 1989 dall’economista J. Williamson) fondato sulla fiducia cieca nella capacità dei mercati di autoregolarsi senza ingerenze di pubblici poteri, è sceso dalla cattedra e si è aperta la ricerca di nuovi paradigmi interpretativi.

A ben considerare, l’intervento dello Stato è stato particolarmente penetrante in certi momenti storici, non tanto per ragioni ideologiche che lo hanno ostacolato (liberismo) o favorito (socialismo, comunismo), quanto per far fronte a eventi straordinari che determinano situazioni di vero e proprio stato di necessità.

Così è avvenuto con la crisi finanziaria del 2008 che stava disgregando il sistema finanziario a livello globale, con possibili ricadute devastanti sull’economia reale e sull’occupazione. Per prevenire una crisi sistemica è riemerso in modo prepotente persino negli Stati Uniti il ruolo dello Stato salvatore come garante di ultima istanza della stabilità del sistema (G. Napolitano, 2008).

Del resto già in occasione della prima e della seconda guerra mondiale (o da ultimo del conflitto in Ucraina) gli Stati mobilitarono tutte le risorse nazionali pubbliche e private, con misure di coordinamento e di pianificazione senza precedenti.  Secondo Walter Rathenau, che da ingegnere industriale fu incaricato di razionalizzare in Germania la riconversione della produzione industriale, la pianificazione dei trasporti, il controllo dei prezzi, i razionamenti, ecc., l’idea era quella di creare “organizzazioni di massa amministrate” (citazione da J.C. Scott, 2022).

La stessa pandemia dilagata a livello mondiale nel 2020 si è posta come un fatto esistenziale oggettivo che ha richiesto l’intervento con tutti i mezzi a disposizione (finanziari, logistici, ecc.) degli Stati nazionali e delle istituzioni europee, derogando a ogni regola prevista per i tempi ordinari (come la collaborazione tra imprese farmaceutiche in esenzione dalle norme antritrust).

Fattori geopolitici e tensioni tra le grandi potenze, con tanto di conflitti bellici attuali (Ucraina) e potenziali (Taiwan), hanno impresso una spinta verso la deglobalizzazione (decoupling, derisking), l’introduzione di misure protezioniste (dazi) e di incentivazione delle produzioni nazionali (negli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act del 2022) di controlli sugli investimenti da e verso l’estero (golden power). In Europa è stata allentata la disciplina degli aiuti di Stato e promossa una nuova politica industriale europea, sollecitata soprattutto congiuntamente da Francia e Germania. La tesi di F. Fukuyama sulla fine della storia con la vittoria definitiva, dopo il crollo del muro di Berlino, del modello delle democrazie liberali e della globalizzazione si è rivelata illusoria.

In definitiva, i fattori che stanno modificando i rapporti tra Stati e i rapporti tra Stato e mercato, che peraltro sono stati soggetti storicamente a un moto pendolare (P. De Grauwe, 2017), sono molteplici e ciascuno di essi richiede un’analisi specifica.

Il paradigma neoliberale è comunque entrato in crisi, sia per le conseguenze negative negli Stati che ad esso si sono maggiormente ispirati, sia nel suo impianto teorico.

Quanto al primo aspetto, si pensi al problema della diseguaglianza, con la concentrazione della ricchezza in capo a una porzione sempre più ristretta della popolazione (in modo abnorme soprattutto negli Stati Uniti).

Ma se le politiche redistributive, pur necessarie anche per prevenire reazioni di tipo populista, devono ritornare al centro del dibattito, non si deve dimenticare che è altrettanto fondamentale promuovere la crescita economica senza la quale la “torta” da dividere non è in grado di soddisfare tutte le esigenze.

Da questo punto di vista, il nostro Paese, che da oltre vent’anni ha visto inceppare il motore dello sviluppo, trova limiti stringenti al finanziamento della spesa sociale anche a causa del livello elevato del debito pubblico, frutto di politiche lassiste dei decenni passati. Peraltro, la stessa diseguaglianza nel nostro contesto dipende anche da altri fattori che frenano l’ascensore sociale, come la cultura familistica e di clan o l’avversione nei confronti della meritocrazia.

Più in generale, è sempre attuale l’interrogativo se la crescita economica è meglio promossa dai meccanismi del mercato, all’interno di un sistema di regole robusto ispirato al modello della rule of law(come sviluppato nei rapporti della Commissione di Venezia), piuttosto che dalla mano diretta e indiretta dello Stato. Viste nei cicli storici di lungo periodo, le istituzioni “inclusive” (ispirate alla rule of law e aperte alla concorrenza) sembrano ottenere risultati migliori rispetto a quelle “estrattive” (autoritarie, di impostazione dirigista) (D. Acemoglu-J. Robinson, 2012).

Quanto al secondo aspetto, più che un superamento del paradigma neoliberale con il ritorno al passato è richiesto un ripensamento e un adattamento al nuovo contesto. E’ opinione sempre più diffusa, per esempio, che gli obiettivi del modello liberale non devono essere limitati alla crescita economica, ma anche al “mantenimento di una certa eguaglianza di reddito e di ricchezza” (F. Fukuyama, 2022) con reti di protezione per i lavoratori colpiti dai processi di “distruzione creatrice” di schumpeteriana memoria e per le fasce più deboli della popolazione (attualizzando le tesi di John Rawls).

Da ultimo si è teorizzato un nuovo approccio (denominato “productivism”) che si differenzia sia dal modello neoliberale, sia dal modello keynesiano e che punta soprattutto su politiche industriali basate su una “collaborative interaction” tra istituzioni pubbliche e imprese e sull’idea che Stati e mercati sono “complements, not substitutes”. Il tutto con l’obiettivo di creare buone imprese (piccole e medie, piuttosto che campioni nazionali) e buoni posti di lavoro (D. Rodrik, 2023).

In conclusione, la discussione sul neoliberismo, spesso condizionata da dogmatismi, presenta elementi di complessità, anche perché sempre più spesso viene posto l’accento su un terzo elemento, come fattore di temperamento degli eccessi dello Stato e del mercato, costituito dalla società civile (R. Rajan, 2019, M. Brunnermeier, 2021).

Bibliografia essenziale

  1. AMATO, Bentornato Stato, ma, Bologna, 2022
  2. BRUNNERMEIER, The resilient society, Endevour Literary Press, 2021
  3. CLARICH, Alle radici del paradigma regolatorio dei mercati, in Rivista della regolazione dei mercati, 2020
  4. DE GRAUWE, The limits of the market – the pendulum between government and market, 2017, Oxford University Press
  5. FUKUYAMA, The end of history and the last man, New York, 1992
  6. FUKUYAMA, Liberalism and its discontents, Londra, 2022
  7. NAPOLITANO, Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in Giorn. di dir. amm., 2008, pag. 1084 e seg.
  8. RAJAN, The third pillar, New York, 2019
  9. RODRICK, On productivism, 2023, https://tinyurl.com/2lonxfc3
  10. C. SCOTT, Seeing like a State – How certain schemes to improve the human condition have failed, Yale University Press, 2020
  11. M. THATCHER, From old to new industrial policy via economic regulation, in Rivista della regolazione dei mercati, 2014

[1] Citato anche da Eugenio Bruti Liberati nel suo contributo su questo blog A quando la fine del neo-liberismo? Approfitto per ringraziare Eugenio Bruti Liberati e Leonardo Ferrara per avermi invitato partecipare alla discussione su questi temi.

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