Il ritorno dello Stato (illiberale) in Europa: riflessioni critiche sulla costituzione materiale dell’UE

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di Andrea Guazzarotti

Il c.d. “ritorno dello Stato” può assumere coloriture diverse, in Europa e non solo. L’esempio delle c.d. ‘democrazie illiberali’ dell’Europa Centrorientale è paradigmatico e meriterebbe di essere analizzato nella sua fase genetica. Al brusco smantellamento della proprietà pubblica e alla repentina deindustrializzazione degli anni Novanta, è seguita una re-industrializzazione guidata dal capitale transnazionale, il quale ha finito per assumere non solo un ruolo economico, bensì anche quello politico di legittimazione delle deboli élite politiche nazionali uscite dal precedente regime (Scheiring). Queste ultime hanno offerto al capitale transnazionale politiche iperliberiste (flat-tax e riforme del diritto del lavoro di stampo ‘offertista’), senza comunque riuscire a contrastare l’impennata di disoccupazione ed emigrazione. Fattori questi che, specie in Ungheria e Polonia, hanno destabilizzato in profondità l’identità collettiva di quelle società, fornendo terreno fertile per la svolta ‘social-nazionalista’ dopo il crollo delle élite liberali e cosmopolite (Holmes, Krastev).

La crisi economica del 2008 ha catalizzato le fragilità del modello economico in questione, per la repentina fuga dei capitali internazionali. L’Ungheria rappresenta il modello della reazione sociale e politica a tale crisi: fino al 2008, le famiglie ungheresi erano state incentivate da governo e politiche predatorie di banche estere a contrarre mutui in valuta straniera, per sopperire alla svalutazione di quella nazionale; il credito (estero) facile, inoltre, serviva a compensare la stagnazione dei redditi da lavoro e la riduzione del welfare. La repentina fuga dei capitali costrinse l’Ungheria ad affidarsi, prima ancora della Grecia, alla Troika e al draconiano piano di austerity da questa imposto nel 2008. La crisi del debito privato, al contempo, consentì a Orbán di presentarsi come il difensore del popolo e inaugurare la sua politica “sociale” e nazionalista (salvataggio dei mutuatari della classe medio-alta, haircut dei crediti delle banche estere: Ther, 221s.). Ne seguì – sempre in Ungheria – una fase di relativa rinazionalizzazione del capitale, con l’espulsione di quello transnazionale da alcuni settori chiave, come quello bancario, dei media e delle utilities (Nacsyk). Emblematico il caso della rinazionalizzazione dei fondi pensione, che serviva al governo di Orbán per fare cassa e finanziare la costosa flat-tax per le multinazionali: quest’ultima comportava ingenti scoperture di bilancio che, stante i vincoli posti dall’UE e introiettati nella nuova costituzione del 2011, non potevano essere colmate ricorrendo all’indebitamento. All’accaparramento governativo della liquidità dei fondi pensione privati seguì la reazione giudiziaria di molti lavoratori e pensionati, con il coinvolgimento della stessa Corte costituzionale ungherese, la quale fu neutralizzata dal Governo ricorrendo a riforme costituzionali che ne ridussero l’indipendenza (Arato).

Nazionalismo economico e apertura al capitale convivono in questa vicenda esemplare, così come convivono l’osservanza del vincolo europeo dell’equilibrio di bilancio e la violazione dello Stato di diritto, che pure l’UE ha preteso difendere (ma assai più tardivamente di quanto fece con il rigore di bilancio nei confronti dei Paesi Mediterranei e dell’Irlanda). Completano il quadro le procedure d’infrazione aperte contro l’Ungheria all’inizio del 2012: la più nota è quella sul prepensionamento dei giudici (di cui alla sent. 6.11.2012, C-286/12), che condusse alla blanda soluzione di un mero risarcimento per i magistrati colpiti; assai più significativa, ma ignota ai più, è quella della riforma mirante a diminuire l’indipendenza della Banca centrale ungherese. Il rapido dietro-front del governo Orbán e la pronta restaurazione dello status d’indipendenza della Banca centrale comportò la quasi immediata archiviazione della procedura d’infrazione. Non risulta, invece, che siano state mai lanciate procedure d’infrazione contro le drastiche riforme del diritto del lavoro e sindacale, inaugurate nel 2010-2012 (Hungler). Su quest’ultimo fronte, la vicenda emblematica è quella della legge adottata nel 2020 allo scoppio della pandemia, con cui si imponeva sostanzialmente ai lavoratori l’obbligo di accettare, con un contratto aziendale individuale, un lavoro sottopagato senza possibilità di cambiarlo per un periodo minimo di due anni, pena l’obbligo di restituire all’azienda l’equivalente del salario complessivo pattuito per tale periodo, con l’evidente obiettivo di vincolare il lavoratore al posto di lavoro e bloccarne la mobilità. A questa riforma ha fatto seguito la realizzazione in Ungheria di un grande impianto della BMW, decisione fino a quel momento congelata dai vertici aziendali (Fubini). La stessa BMW, del resto, aveva investito in Ungheria un miliardo nel 2018, nel pieno, cioè, del dibattito sugli attacchi allo Stato di diritto che si stava svolgendo nell’UE (Keleman).

Il capitale transnazionale, come si vede, è stato tutt’altro che espulso dai settori chiave (automotive in testa). Esso ha finito per assumere un potere legittimante capace di neutralizzare la politica dei ‘valori dell’UE’ portata avanti dalle istituzioni europee: il ministro degli esteri polacco affermò baldanzoso nel 2016 che il rapporto del Vicepresidente della Commissione Timmermans sui pericoli per lo Stato di diritto in Polonia e Ungheria non veniva preso troppo sul serio dalle agenzie di rating e gli investitori esteri (Rech).

In estrema sintesi, alla crisi del modello neoliberista spinto avutasi nel 2008 sia l’Ungheria di Orbán (dal 2010) che la Polonia del Pis (dal 2015) hanno reagito rimodulando l’alleanza tra Governo e capitale, riacquistando la fiducia di parte di quello nazionale senza tuttavia smettere di corteggiare quello transnazionale più rilevante, anzi! L’opzione illiberale dei partiti al governo in Ungheria e Polonia potrebbe non essere altro che la risposta adattativa al capitalismo internazionalizzato che determinate economie periferiche sono riuscite faticosamente a produrre, in un’alleanza tra capitale internazionale e nazionale che non contempla alcuna significativa partecipazione al patto della classe lavoratrice (Scheiring). Si ignora spesso, infatti, che la regressione illiberale in questi Paesi è stata preceduta dall’attacco alla “democrazia economica” e ai diritti dei lavoratori (Hungler) e che, prima ancora, le procedure di adesione all’UE avevano umiliato la funzione rappresentativa dei Parlamenti dei Paesi candidati centrorientali, riducendoli a meri trascrittori di più di 80.000 pagine dell’acquis comunitario (Komárek). Una passivizzazione che certo non educava alla democrazia gli elettorati dei futuri nuovi Stati membri.

La repentina fuga del capitale transnazionale nel 2008 e il crollo economico che ne è seguito, specie in Ungheria, hanno dato l’innesco al contromovimento à la Polanyi della piccola e media borghesia, fino a quel momento penalizzata dal patto con il capitale transnazionale. Dalla nuova alleanza tra governanti e borghesia nazionale è nato un assetto assai più stabile del precedente, in cui il capitale transnazionale – espulso da alcuni settori sensibili, ma attratto in altri – gioca ancora un ruolo cruciale. Detassazione delle multinazionali, sussidi alle imprese e politiche di workfare, da un lato, distribuzione clientelare dei fondi europei agli imprenditori locali e sussidi alle famiglie numerose, da un altro lato, costituiscono lo stabile mix di politiche prodotto da quell’alleanza (Scheiring). La legittimazione delle élite politiche, un tempo cercata nell’ammissione all’UE, oggi viene direttamente dal capitale transnazionale e dalla ritrovata armonia con la borghesia nazionale. Questo nuovo assetto sembra assai più stabile del precedente, tanto da aver dato vita a una “costituzione materiale” che si è liberata (Ungheria) o si sta liberando (Polonia) della precedente “costituzione formale” che l’UE aveva cercato di puntellare dall’esterno negli anni delle condizionalità nelle procedure di adesione.

Il ruolo giocato dall’UE in tale evoluzione è ambiguo: le vicende analizzate nel mio Neoliberismo e difesa dello stato di diritto in Europa (Guazzarotti), provano a far luce sulla duplicità della “costituzione” dell’UE, quella materiale (libera circolazione dei capitali) e quella formale (Carta dei diritti). Presentatasi come “Unione di competitività”, priva di autentica solidarietà e di proprie politiche industriali, l’Unione ha senz’altro facilitato la presa del capitale transnazionale sulle società dell’Europa centrorientale; mentre ha strozzato sul nascere, nel mezzo della crisi finanziaria, i tentativi democratici di ridistribuire ricchezza dall’alto al basso nella Grecia di Syriza, essa ha tollerato per anni i governi illiberali capaci di garantire lucrosi affari al capitale transnazionale (i profitti estratti da Ungheria e Polonia sono più del doppio dei fondi europei a favore di questi ultimi: Piketty). Ora si pretende affiancare all’Unione di competitività l’Unione dei valori, facendo leva sulle condizionalità economiche (regolamento 2020/2092) anziché su politiche sociali e industriali para-federali – al momento alquanto aleatorie – in grado di addomesticare le multinazionali e il loro potere di indurre la competizione al ribasso tra sistemi giuridici nazionali. Il “law shopping” agevolato dalla Commissione e dalla Corte di giustizia negli anni ruggenti (Giubboni, Orlandini) è intrinsecamente contraddittorio con l’essenza stessa dello Stato di diritto (Supiot). Si può sfaldare, ricorrendo a valori come lo Stato di diritto, l’alleanza tra capitale transnazionale ed élite politiche illiberali che supporta la costituzione materiale di Ungheria e Polonia? Il capitale transnazionale non è lo stesso che cementa – alleandosi con le élite politiche nazionali e quelle tecnocratiche di Bruxelles e Francoforte – la costituzione materiale dell’UE? Le leve della condizionalità ispirata ai valori rischiano di essere strumenti superficiali con cui allineare le costituzioni formali nazionali alla costituzione formale dell’UE, senza attingere alle rispettive costituzioni materiali. Forse uno sguardo alla democrazia economica e al ruolo dei sindacati sarebbe un modo per tentare un nuovo inizio (i lavoratori essendo stati, fin qui, estromessi dal patto che cementa le costituzioni materiali dei Paesi illiberali). Ma ciò, appunto, comporta una politica industriale e sociale capace di limitare la competizione tra sistemi giuridici e detronizzare il capitale transnazionale, ossia la revisione del patto su cui si fonda la costituzione materiale dell’UE.

Autori citati

– A. Arato, Post-Sovereignty Constitution-making in Hungary, in SAJHR, v. 26, 2010, 29ss.

– F. Fubini, Operai come schiavi con le leggi di Orbán: in Ungheria i lavoratori senza diritti, in Corriere della Sera, 20 gennaio 2021.

– S. Giubboni, G. Orlandini, Mobilità del lavoro e dumping sociale in Europa, oggi, in GDLRI, 2018, v. 160, n. 4, 910ss.

– A. Guazzarotti, Neoliberismo e difesa dello stato di diritto in Europa. Riflessioni critiche sulla costituzione materiale dell’UE, Milano 2023.

– S. Holmes, I. Krastev, La rivolta antiliberale, Milano 2020.

– S. Hungler, Labor Law Reforms after the Populist Turn in Hungary, in Rev. of Central and East Eur. Law, 2022, v. 47, 89ss.

– D. Keleman, The European Union’s authoritarian equilibrium, in Journal of European Public Policy, v. 27, n. 3, 2020, 481ss.

– J. Komárek, Waiting for the existential revolution in Europe, in International Journal of Constitutional Law, v. 12, n. 1, 2014, 190ss.

– M. Nacsyk, Budapest in Warsaw: Central European Business Elites and the Rise of Economic Patriotism since the Crisis (2014), in SSRN: https://ssrn.com/abstract=2550496

– T. Piketty, 2018, the year of Europe (16 gennaio 2018), https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2018/01/16/2018-the-year-of-europe/

– W. Rech, Some remarks on the EU’s action on the erosion of the rule of law in Poland and Hungary, in Journ. Contemp. Eur. Studies, v. 26, n. 3, 2018, 338ss.

– G. Scheiring, The Retreat of Liberal Democracy. Authoritarian Capitalism and the Accumulative State in Hungary, The Netherlands 2020.

– A. Supiot, La gouvernance par les nombres : cours au Collège de France (2012-214), Parigi 2015.

– P. Ther, Europe since 1989, Princeton 2018.

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