Il c.d. “premierato” all’italiana. A prima lettura

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Disegno di Legge Costituzionale, Testo Ufficiale

di Francesco Bilancia

Come ormai la stampa e i commentatori hanno già ampiamente anticipato, in attesa del decreto di autorizzazione alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, è disponibile un testo – a quanto pare già rimaneggiato dopo la delibera del Consiglio dei ministri del 3 novembre scorso – del disegno di legge di revisione costituzionale del Governo, asseritamente per la “Introduzione dell’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia”. L’elezione diretta del Presidente del Consiglio – organo che non muta di denominazione – viene, poi, gergalmente qualificata come introduzione del “premierato”. Nella sua parte più significativa il progetto interviene per modificare gli articoli 92 e 94 della Costituzione, introducendo il principio per cui “Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni”. Principio al quale si fa seguire la obbligatoria appartenenza parlamentare dello stesso (“Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura”) che è richiesta anche nell’eventuale ipotesi di sua sostituzione nel corso della stessa legislatura, ma su ciò torneremo tra breve.

All’esito delle elezioni, quindi, si prevede che il Presidente della Repubblica conferisca senz’altro al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo, rimanendo invariata la sola procedura di nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, dei singoli Ministri. Nella fase di avvio di legislatura, peraltro, si prevede che possa accadere che non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente appena eletto. In questo caso “il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo”. Si immagina debba trattarsi di un governo presieduto dallo stesso Presidente appena eletto nella carica, ma di diversa composizione ministeriale. “Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.

La nuova disciplina, che mantiene la relazione fiduciaria tra il governo necessariamente guidato dal Presidente eletto e il Parlamento – della cui composizione parleremo tra un momento – contempla quindi le ipotesi che a) il Governo perda la fiducia del Parlamento (i primi 2 commi dell’art. 94 non subiscono modifiche) determinando quindi l’obbligo di dimissioni; e b) che il Presidente del Consiglio eletto “cessi dalla carica”. In questo caso si apre un’ipotesi eversiva del principio dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, giacché si prevede che “il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto” (enfasi aggiunta). Ma in questo secondo caso il nuovo Presidente del Consiglio potrà soltanto “attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia”. Qualora il nuovo governo non ottenga la fiducia “e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante”, il Presidente della Repubblica deve procedere allo scioglimento delle Camere.

Questo secondo Presidente ha quindi il potere di determinare irrevocabilmente le condizioni giuridiche per uno scioglimento anticipato delle Camere, potere che nel caso del Presidente eletto (l’originario) è invece condizionato dalle ipotesi alternative sopra descritte.

La riforma, poi, inserisce nel testo della Costituzione – con un’imprudenza che Massimo Luciani ha definito “sconcertante” (La norma anti-ribaltoni una trovata fallimentare, intervista pubblicata su La Stampa del 1 novembre 2023, p. 17) – alcune disposizioni relative alla legge elettorale delle Camere, tra l’altro non considerando che resta contraddittoriamente in vigore la disposizione di cui all’art. 57, primo comma, della Costituzione che prevede che il Senato sia eletto “a base regionale” (lo rileva nuovamente Luciani). A proposito di sovranità popolare e di scelta dei cittadini, si prevede testualmente che “La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere…in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri”, salvo un retorico richiamo al rispetto del principio di “rappresentatività” (sic!).

È quindi previsto un premio di maggioranza nazionale privo di soglia di accesso, che consentirebbe alla lista o alla coalizione che ottenga più voti delle altre di conquistare il 55 per cento dei seggi, quale che sia la percentuale dei voti ottenuti. Che si dia o meno la possibilità di esprimere una preferenza tra i candidati in lista – scelta eventualmente affidata alla futura legge elettorale – anche in considerazione del fatto che il premio di maggioranza è un moltiplicatore automatico di seggi a prescindere dal numero di voti ottenuti, se non tutti buona parte dei nuovi parlamentari si troverebbero quindi proiettati in Parlamento soltanto per premiare il Presidente del Consiglio. Da tempo la letteratura scientifica ha commentato criticamente le ipotesi politiche di modifiche incostituzionali delle costituzioni, per denunciare le riforme che – riducendo la struttura democratica dell’ordinamento – introducono nel testo disposizioni in contrasto con i principi fondamentali, quali sovranità popolare e democrazia (ad es., Yaniv Roznai, Unconstitutional Constitutional Amendments. The Limits of Amendment Powers, OUP, 2017).

Quello italiano che si profila è proprio un caso di scuola, perché le previsioni in precedenza richiamate, e in particolare quella sul premio di maggioranza senza alcuna soglia minima di accesso, sono in aperto contrasto con l’art. 48 Cost. che pone tra i principi costituzionali fondamentali in materia, la personalità, l’eguaglianza e la libertà del voto. Recenti sentenze della Corte costituzionale (v. sent. n. 1 del 2014) hanno infatti già dichiarato l’incostituzionalità di un premio di maggioranza abnorme, in quanto privo di soglia minima di accesso in termini di percentuale di voti ottenuti, per il venir meno della correlazione effettiva tra i seggi conquistati e i voti espressi dai cittadini. Circostanza vieppiù aggravata dall’ipotesi di assenza di un voto di preferenza. In tal caso, oltre alla mancanza di correlazione tra eletti ed effettivi risultati elettorali, mancherebbe addirittura la personale corrispondenza tra scelte del singolo elettore e parlamentare “eletto”. Laddove i riformatori non provano neanche solo ad ipotizzare la differente formula del collegio uninominale all’inglese, perché questa avrebbe il “difetto” di costruire comunque una relazione diretta eletto-elettore e di rafforzare con il singolo parlamentare le stesse Camere.

Si profilerà, pertanto, una nuova ipotesi di Parlamento di “nominati”, con buona pace della sovranità popolare e del principio della rappresentatività del Parlamento, composto a quel punto da candidati scelti dall’alto, dalle oligarchie partitiche senza alcuna possibilità di correttivo elettorale; e determinati numericamente da un meccanismo matematico, il moltiplicatore di seggi generato dal premio di maggioranza automatico e senza soglia minima.

Qui cade la propagandistica domanda retorica della Presidente del Consiglio, promotrice della riforma: “volete che decida il popolo… o i partiti”? la cui risposta è, appunto: a decidere saranno le attuali oligarchie partitiche!

Il che sposta immediatamente l’attenzione sulla ratio di fondo della riforma. Farei notare, intanto, che contro la lettera della Costituzione e la terminologia stessa della proposta di legge di revisione costituzionale che stiamo commentando, i sostenitori di questa soluzione radicale la motivano con la necessità di affidare al popolo la “scelta del capo, o della capa” (del Governo, nda). Nient’altro.

“Scelta”, si badi bene, non “elezione”, come pure dichiarato in principio nell’originario titolo della proposta di legge e nel progettato nuovo art. 92 Cost., laddove si parla di “elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri” (enfasi aggiunta). L’assenza di una soglia minima di voti per essere eletti alla carica di Presidente del Consiglio, con o senza eventuale secondo turno, instaurerebbe infatti nella carica un candidato privo di effettivo consenso popolare, in quanto semplicemente il più votato, magari anche solo da una percentuale di elettori molto al di sotto del limite di decenza minima del 50% dei voti espressi. Nessuna reale elezione popolare diretta, quindi, né del Presidente del Consiglio, né dei componenti del Parlamento. Con la pericolosa aggravante, in una fase storica in cui anche nelle democrazie più stabili ormai i presidenti eletti rifiutano di accettare addirittura le sconfitte elettorali (si pensi almeno a Trump e Bolsonaro) di non prevedere alcun limite al numero di mandati.

Questo insieme di elementi rende, quindi, del tutto inappropriato l’utilizzo del termine “premierato”, allusivo alla forma di governo del Regno Unito, nell’ambito della quale un Parlamento effettivamente eletto dai cittadini e una struttura partitica ben più forte e stabile di quella del “sistema” dei partiti italiani – a volte a conduzione personalistica o addirittura familiare – consentono invece l’accesso e la permanenza nella carica di primo ministro soltanto a condizione di una effettiva relazione fiduciaria con il Parlamento.

Salva la circostanza che, comunque, il progetto di riforma esclude la possibilità di nominare alla carica di Presidente del Consiglio chi non sia parlamentare e non faccia parte (dall’inizio?) della stessa maggioranza del Presidente, la proposta contiene inoltre una disposizione che rinnega alla radice il principio dell’elezione popolare diretta. Non più solo nella sostanza, come appena chiarito, ma addirittura per espressa forma. Come già più sopra richiamato, infatti, nell’ipotesi di approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente “eletto”, il Presidente della Repubblica può nominare nella carica di Presidente del Consiglio un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto”.

Oltre alla bizzarra previsione per cui il nuovo Governo, magari entrato in carica 3 o 4 anni dopo il precedente, sarebbe comunque costretto dall’obbligo limitante di attuare le stesse dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici del governo del Presidente originariamente eletto – cosa avrebbe allora causato la crisi di fiducia? e come affrontare nuovi problemi, magari gravi e urgenti, e nuove questioni emerse nel frattempo? – il nuovo Presidente sarebbe dotato di un potere assoluto non riconosciuto al Presidente originariamente “eletto”. Quello di pretendere lo scioglimento anticipato delle Camere, svuotando il Presidente della Repubblica della più importante attribuzione di neutrale arbitraggio delle crisi politiche, siano esse o meno interne alla maggioranza parlamentare.

Invece di pensare a come rendere efficiente il sistema decisionale, ad esempio ripensando un bicameralismo in fase di stallo o le funzioni parlamentari a seguito della riduzione del numero dei componenti, si procede a una cristallizzazione della dinamica politica ingessando il sistema mediante un tentativo di costituzionalizzazione di fatto del programma elettorale formulato dal candidato alla presidenza del Consiglio in apertura di legislatura. Come se il mondo non cambiasse rapidamente, come se per cinque anni fosse possibile lasciare del tutto invariata la progettazione dell’indirizzo politico e le priorità dell’agenda politica del Governo. Un Paese paralizzato da tecnicismi assurdi per cinque anni. Con un conseguente forte indebolimento della Costituzione, in balia di un sistema oligarchico composto dai notabili di partito che priverebbero il Presidente della Repubblica degli essenziali strumenti di attivazione dei correttivi dinamici tipici delle forme di governo parlamentari. Il rischio evidente è quello di accentuare l’instabilità, non solo politica, ma addirittura istituzionale del sistema, privato degli essenziali strumenti di arbitraggio presidenziale. Che sta o cade tutto nella possibilità – in caso di crisi – di esercitare in autonomia il proprio ruolo di mediazione tra le forze politiche, insieme al Parlamento e al Governo.

Non ritengo, invece, che meritino commenti le continue allusioni alle distinte ipotesi del “sindaco d’Italia” e del presidente della giunta regionale, eletti a suffragio universale diretto – questi, tra l’altro, nel senso vero della parola – perché come è a tutti noto i sindaci e i presidenti di regione non hanno il potere di incidere sugli assetti costituzionali, sulla divisione dei poteri, sull’indipendenza della magistratura e degli organi di garanzia, sui diritti dei cittadini, sul sistema delle relazioni internazionali.

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