Chi ha paura del premierato?

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Disegno di Legge Costituzionale, Testo Ufficiale

di Tommaso Edoardo Frosini

1. All’inizio era il presidenzialismo. Lo si evocava spesso nei dibattiti pubblici e istituzionali, seppure non fosse mai stato chiaro quale presidenzialismo si sarebbe voluto per l’Italia. Quello americano? Oppure quello francese, che è semipresidenziale? Innanzitutto, presidenzialismo vuol dire elezione diretta del capo del governo che è anche capo dello stato; semipresidenzialismo, invece, è elezione a suffragio universale del capo dello stato, che non è capo del governo. Questi sono due punti fermi da cui occorre partire, per chiarire meglio alcuni aspetti. E così introdurre la proposta di riforma costituzionale del cd. premierato elettivo (da me avanzata in un editoriale su il Mattino del 9 marzo 2023 e, in maniera approfondita, su Rass. Parl. n, 1, 2023).

Il problema costituzionale italiano è il governo non certo il presidente della Repubblica, che funziona benissimo. Un governo che da oltre dieci anni, ovvero da Mario Monti in poi, non ha mai avuto un presidente del consiglio che fosse espressione di una indicazione elettorale da parte dei cittadini. Addirittura da Renzi in poi, il presidente del Consiglio non è stato nemmeno eletto come parlamentare. Questo sistema ha favorito una disaffezione elettorale, perché i cittadini non sono stati messi in condizione di conoscere da chi sarebbero stati governati. Questo sistema ha consentito il formarsi di più governi nella stessa legislatura, addirittura con maggioranze politiche diverse (come nel recente caso dei governi Conte 1 e 2). Questo sistema ha prodotto ancora di più la ingovernabilità.

Con la nomina dell’attuale presidente del consiglio, quale leader della coalizione politica che ha vinto le elezioni, si è tornati a essere una democrazia come quelle europee, dove gli elettori sanno chi sarà il loro capo del governo, in base all’esito delle elezioni politiche. Sarebbe opportuno muoversi sulla scia di questa affermazione istituzionale, unitamente a quanto gli italiani fanno da oltre venti anni, quando eleggono il sindaco e il presidente di regione. A livello locale e territoriale, infatti, i cittadini votano ed eleggono il capo del governo, insieme a una maggioranza espressione delle forze politiche che lo sostengono, grazie a un sistema elettorale che permette di premiare le liste collegate al candidato vincente.

Allora, una domanda sorge spontanea: perché nei governi decentrati c’è elezione diretta del vertice dell’esecutivo e a livello nazionale no? Si tratta di uno strabismo istituzionale, che andrebbe corretto con delle nuove lenti costituzionali. Il progetto di riforma costituzionale, oggi sull’agenda politica della maggioranza di governo, prevede di codificare in costituzione l’elezione diretta del primo ministro. Con l’obiettivo di rafforzare la figura e il ruolo del capo del governo, il quale sarebbe l’effettivo titolare dell’indirizzo politico, con alcune prerogative costituzionali, quali, soprattutto, il potere di scioglimento anticipato delle Camere. E con un presidente della repubblica, immutato nel suo ruolo e nelle sue prerogative, quale potere neutro e garante della costituzione. Il capo del governo dovrebbe essere sostenuto da una maggioranza parlamentare, espressione di un sistema elettorale che premia, maggioritariamente, la lista o le coalizioni di liste che sostengono il candidato primo ministro. E con il meccanismo, già presente a livello locale e regionale, del cd. simul stabunt simul cadent, e cioè che governo e parlamento nascono e cadono insieme, e quindi se le Camere sfiduciano il governo si autosciolgono, in modo che si possa tornare alle urne per eleggere nuovamente governo e parlamento, che sono legati e collegati l’uno all’altro. Altrimenti, si può immaginare la previsione di una norma “antiribaltone”, nel caso di impedimento del premier (dovuto a varie cause, morte, dimissioni, o altro), con la successione, durante la legislatura, di un esponente della maggioranza parlamentare, risultata vincitrice alle elezioni.

Un governo scelto dal popolo per un governo di legislatura, come lo chiamava Serio Galeotti. Non è presidenzialismo ma neoparlamentarismo. Ovvero un’evoluzione del sistema parlamentare, di cui conserva il rapporto fiduciario, che si sviluppa nel senso di garantire stabilità e restituire centralità alla sovranità popolare. Per avere governabilità senza comprimere la rappresentanza.

2. Il governo ha provveduto a ratificare il disegno di legge costituzionale, che prevede la riforma del premierato. Interessa quattro articoli della costituzione. Quindi, non uno stravolgimento costituzionale, piuttosto un intervento puntuale su quelle norme che riguardano il capo del governo e la sua maggioranza parlamentare. La disposizione di rilevo è quella che modifica l’art. 94 cost per prevedere che: “il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni”. Con l’obiettivo, pertanto, di cercare di garantire la governabilità, attraverso un governo, e il suo vertice, dalla durata certa e stabile, scelto e votato dai cittadini, di fronte ai quali è responsabile per l’intero mandato quinquennale. Si tratta di un tentativo, l’ennesimo dopo tanti anni di propositi di riforma falliti, di provare a dare all’Italia quello che si è sempre desiderato e mai riuscito a ottenere: la governabilità. Cioè, un sistema istituzionale in cui il governo faccia quello che deve fare, governare per attuare il programma di indirizzo politico. Un sistema istituzionale, poi, in cui il popolo può davvero esercitare la sovranità di cui è titolare, attraverso il voto sia per la rappresentanza di governo che quella parlamentare. È questo un aspetto importante, troppo spesso trascurato: la costituzione, all’art. 1, afferma che la sovranità appartiene al popolo ma poi, nel concreto, il titolare non è davvero messo in condizione di esercitarla. Con l’elezione diretta, come già avviene per i sindaci e i presidenti di regione, il popolo può essere sovrano nell’esercizio pieno del diritto di voto, quale piena e autentica manifestazione di democrazia.

Il progetto governativo individua in una legge elettorale con il premio di maggioranza, assegnando il 55 per cento dei seggi nelle Camere, la soluzione che favorirebbe il formarsi di una maggioranza garantita alle liste che sostengono il primo ministro eletto. Se così non fosse, il rischio sarebbe di ripetere la sfortunata esperienza israeliana, che aveva l’elezione diretta del primo ministro ma con un sistema elettorale proporzionale, che ne decretò la sua fine per instabilità parlamentare.

Vi è poi, nel progetto, la cd. “norma anti ribaltone”: nel caso di cessazione dalla carica del primo ministro, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico a un parlamentare appartenente alla stessa maggioranza che ha sostenuto il primo ministro eletto seppure “cessato”. Qui si può evidenziare una certa incoerenza con l’elezione diretta. Nel senso che il governo nasce dal voto popolare insieme al parlamento e deve durare lo stesso mandato: “simul stabunt, simul cadent”, come si dice con formula latina. Perché il governo deve essere di legislatura e quindi legato e collegato alla durata di essa. Il parlamento può votare la sfiducia al governo e così facendo torna al voto popolare per essere rieletto insieme al primo ministro. Così come il primo ministro dovrebbe avere la facoltà di proporre lo scioglimento anticipato in caso di crisi.

Un ultimo aspetto previsto dal progetto governativo: l’abolizione dei senatori a vita. Si tratta di un istituto vetusto.: il senato vitalizio sarà riservato solo agli ex presidenti della Repubblica, che sono coloro che hanno davvero illustrato la patria per altissimi meriti.

3. Sono state già mosse diverse critiche al premierato: la prima, è quella di ridurre i poteri del presidente della Repubblica. Critica sterile, a ben vedere. Il presidente della Repubblica non ha poteri decisionali, è un “potere neutro”, secondo una classica definizione. Certo, ci sarà sempre una “moral suasion” presidenziale, che nessuna riforma può sopprimere.

L’altra critica che è stata mossa al premierato, è quella di chi sostiene che questa forma di governo non esiste in nessuna parte del mondo (tranne l’esperienza israeliana, che prevedeva però il sistema elettorale proporzionale) e, pertanto, sarebbe preferibile evitare il “salto nel buio”. Obiezione da respingere: anche il semipresidenzialismo, che inventò la Francia nel 1958, non esisteva in nessuna parte del mondo, poi è stata emulata in più paesi, specialmente in Europa. Così pure la forma di governo del cancellierato tedesco, prima di essere codificata nel “GrundGesetz” del 1949, non esisteva in nessuna parte del mondo. Comunque, il premierato esiste già, proprio in Italia, nella esperienza istituzionale comunale e regionale.

Il premierato dovrà essere accompagnato da una legge elettorale, che consenta al primo ministro di avere la fiducia della sua maggioranza parlamentare. Impensabile e impossibile che ci sia un primo ministro eletto quale leader di un certo schieramento politico e una maggioranza parlamentare dello schieramento opposto. E questo perché il premierato non è presidenzialismo ma neoparlamentarismo, quindi basato sul rapporto fiduciario governo-parlamento.

Intendiamoci: non esiste una forma di governo perfetta, in grado di assicurare stabilità e autorevolezza; le istituzioni, infatti, camminano sulle gambe degli uomini. Bisogna però che il percorso costituzionale dove camminare sia efficace e efficiente. Che provi a dare al paese un governo legittimato democraticamente dal voto degli elettori e responsabile davanti agli stessi. Non è poco.

4. Infine, un’ultima questione di una certa rilevanza. Esiste un metodo per fare le riforme costituzionali? C’è un percorso procedurale, che è quello segnato dall’art. 138 della costituzione, ed è duplice secondo questo ordine: o si vota la riforma in parlamento con la maggioranza assoluta e poi si richiede il referendum, con il quale fare approvare, oppure no, dagli elettori la riforma; o si vota a maggioranza qualificata dei due terzi dei parlamentari e allora non si può dare luogo al referendum. Nella storia dell’Italia repubblicana, le numerose modifiche costituzionali sono state fatte con entrambe le procedure. La grande (e infelice) riforma del 2001, che ha modificato l’intero titolo quinto, è stata fatta a maggioranza assoluta; e poi sottoposta a referendum dalle forze politiche che l’avevano approvata, con esito favorevole. Altre modifiche costituzionali, come quella sul giusto processo oppure sul diritto all’ambiente, invece, sono state riforme condivise in parlamento e, pertanto, approvate a maggioranza qualificata, senza interpello popolare.

Quindi, quando si paventa il timore di riforme imposte dalla maggioranza, non si tiene conto di quello che prescrive la costituzione. E cioè, la possibilità di interrogare i cittadini sulla bontà o meno della modifica costituzionale. Vi sono due precedenti: la riforma voluta da Berlusconi (2005) e quella da Renzi-Boschi (2016). Entrambe vennero respinte dagli elettori attraverso il voto referendario.

Vi è poi il metodo, che non è previsto dalla costituzione ma sperimentato in diverse occasioni: quello di dare vita a una commissione parlamentare bicamerale, con il compito di predisporre un testo di modifica costituzionale da far votare poi in parlamento, a maggioranza qualificata, nella migliore delle ipotesi, oppure a maggioranza assoluta. Vi sono tre precedenti: la commissione Bozzi (1983), De Mita-Jotti (1992) e D’Alema (1997). Tutte e tre fallite nel loro intento.

Vi è infine il metodo, che chiamerei perlustrativo, che si sviluppa sulla base di un lavoro tecnico-istruttorio da affidare a un ristretto comitato di esperti (non “saggi”!), a cui delegare il compito di predisporre un progetto da sottoporre all’esame e poi al voto del parlamento. Un progetto frutto di un esame tecnico, in cui si chiariscono i vantaggi del modello di forma di governo, che si ritiene più confacente al nostro ordinamento costituzionale. Un progetto che potrebbe altresì presentarsi sotto forma di un’articolata proposta di legge costituzionale. E che avrebbe il pregio di “spoliticizzare” modalità e sostanza della riforma.

A questo punto, il parlamento tornerebbe sovrano per decidere con quale maggioranza votare e approvare. Se fosse quella assoluta e non qualificata, allora la decisione finale spetterebbe alla sovranità popolare.

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