Le sfide della Cop 28 di Dubai di fronte al traguardo della decarbonizzazione

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di Monica Cocconi

Non nasce sotto i migliori auspici la 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023 (in sintesi Cop 28) inaugurata a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, il 30 novembre, al culmine di un’emergenza climatica senza precedenti e nel corso di due conflitti bellici. E non solo perché si svolge in uno dei Paesi membri dell’Opec ma per la Presidenza affidata a Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato di un’importante società petrolifera di Stato-Adnoc, nonché Ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti.

Il timore di conflitti di interessi con le delegazioni di Paesi fra i maggiori produttori di idrocarburi hanno in effetti alimentato scetticismo e sospetti di green washing fin dall’apertura della Conferenza che si propone, come le precedenti – a partire dall’Accordo di Parigi sancito dalla Cop 21 – di contrastare il riscaldamento climatico con l’impegno a non superare un aumento di 1,5°.

Al Jaber ha asserito di voler imprimere un metodo inclusivo alla Conferenza attraverso la necessaria partecipazione dei Paesi produttori di idrocarburi, senza i quali non sarebbe possibile, dal suo punto di vista, affrontare in modo sistemico la questione della transizione verso un’economia a minori emissioni di gas serra. La sua posizione, tuttavia, non è stata affatto condivisa da numerosi scienziati che studiano da tempo i cambiamenti climatici e dai gruppi ambientalisti che hanno addirittura invocato la sospensione, da parte di Al Jaber, del suo incarico di amministratore di ADNOC.

Nell’analisi che segue saranno analizzate le innovazioni insite nella Conferenza internazionale, le distanze fra i Paesi partecipanti riguardo al traguardo della decarbonizzazione, la questione del sostegno finanziario ai Paesi in via di sviluppo e i nuovi terreni su cui l’impegno per il clima dovrebbe necessariamente misurarsi per rendere effettivo il contenimento del riscaldamento climatico.

1. Il monitoraggio dell’efficacia dell’azione verso il clima.

Sul versante dell’efficacia dell’azione verso il clima la Cop 28 sarà la prima ad affrontare gli esiti del Global Stocktake (GST), il Rapporto di Sintesi sul bilancio globale, che analizza i progressi dei Contributi Nazionali Determinati (NDC) di tutti i Paesi partecipanti alla conferenza e che deve misurare la distanza fra gli impegni da questi assunti e i risultati conseguiti nel contrasto al riscaldamento climatico oltre che ad orientare le loro azioni future.

La relazione che sintetizza i 17 principali risultati tecnici emersi dalle discussioni mette in luce come «la comunità globale non sia sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi a lungo termine stabiliti nell’Accordo di Parigi, nonostante gli innegabili progressi compiuti». Come mostra il Rapporto, «ora è necessaria molta più azione, su tutti i fronti e da parte di più attori. La finestra per mantenere a portata di mano la limitazione del riscaldamento a 1,5° si sta chiudendo».

Nella Laudate Deum Papa Francesco si è riferito in più punti alle Conferenze internazionali sul clima, lamentandone la scarsa efficacia per l’assenza di «adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze». Lo scarso avanzamento dei negoziati internazionali è dovuto, nell’Esortazione Apostolica, alle «posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale».

Se le previsioni sul successo della Cop 28 non sono particolarmente ottimistiche, per i motivi sopra esposti, non va dimenticato che si tratta di una Conferenza Internazionale che da otto anni permette di mettere al centro dell’Agenda politica internazionale il tema del riscaldamento climatico.

2. Le distanze fra i Paesi sul traguardo della decarbonizzazione.

Uno dei temi centrali e di difficile soluzione al centro delle negoziazioni fra i rappresentanti dei Paesi partecipanti sarà sicuramente quello dei ritmi e dei tempi con cui intensificare il processo di decarbonizzazione su cui vi sono posizioni molto distanti fra i gruppi di Paesi.

A Dubai l’Unione Europea, che è interessata a ridurre l’utilizzo più nocivo dei combustibili fossili, invocherà infatti la chiusura entro il 2050 delle centrali elettriche alimentate a carbone e non dotate di tecnologie per la cattura e il sequestro di anidride carbonica. Tale richiesta peraltro è coerente con l’obiettivo europeo della decarbonizzazione fissato al 2050 dalla legge europea sul clima del 2021, in attuazione del Green New Deal.

L’Unione Europea chiederà anche una limitazione dei sussidi pubblici all’industria dei combustibili fossili che includono sia finanziamenti per la ricerca di nuovi giacimenti sia iniziative per contenere i prezzi di carburanti ed energia nel consumo domestico.

Molto distante da quella dell’Unione Europea è la posizione dei Paesi emergenti, come l’India che si propone di ottenere il traguardo della neutralità carbonica, ossia l’equilibrio fra emissioni di gas serra prodotte e quelle assorbite solo nel 2070 e chiede solo agli Stati già sviluppati un maggior sforzo nella riduzione delle emissioni di gas serra. La posizione è quella per cui l’intensificazione dello sforzo dei Paesi più industrializzati nel contrastare il riscaldamento climatico permetterà ai Paesi emergenti di dilazionare il proprio impegno nel tempo.

Dalla Conferenza internazionale di Dubai non ci si attende necessariamente una convergenza complessiva sul tema ma quantomeno l’assunzione di una posizione più chiara e meno vaga di quelle precedenti. Queste si erano limitate, come la Cop 27, a manifestare un generico impegno a «promuovere un’energia a basse emissioni» senza nemmeno nominare il sostantivo  «carbone» come era avvenuto, viceversa, a Glasgow.

Al centro del dibattito internazionale è tornato anche il rilancio del nucleare rispetto al quale una ventina di Paesi – fra cui Stati Uniti, Francia e Regno Unito – hanno stretto un patto diretto a triplicare entro il 2020 la produzione di energia atomica. Il nucleare di ultima generazione viene in effetti concepito come una delle fonti alternative più convincenti per conseguire il traguardo della decarbonizzazione. 

3. La misura del sostegno ai Paesi emergenti

Un’altra questione cruciale riguarda senza dubbio l’operatività del Fondo di compensazione Ioss and Damage («Perdite e danni»), istituito dalla Cop 27 per sostenere l’azione per il clima dei Paesi emergenti. La sua istituzione è scaturita dalla convinzione che la responsabilità del riscaldamento globale non sia condivisa equamente da tutta l’umanità ma principalmente dai Paesi più industrializzati.

Una maggiore chiarezza sulla sua dimensione e sui Paesi beneficiari e contribuenti al fondo rappresenterebbe senz’altro un passo avanti non solo per favorire l’impegno verso il clima ma anche per accrescere la fiducia e l’equità fra i Paesi più industrializzati e quelli in via di sviluppo.

L’apporto volontario e non obbligato dei Paesi sviluppati e l’esatta identificazione dei beneficiari, in cui l’Unione Europea e gli Stati Uniti non vorrebbero fossero ricompresi la Cina e l’Arabia Saudita, in quanto generatori di una rilevante quantità di emissioni, sono questioni che andrebbero definite con certezza.

Lo stesso ruolo della Banca Mondiale nell’intermediazione per i negoziati e la definizione dei tempi per la distribuzione delle risorse viene messo in discussione per il dubbio che favorisca i Paesi più industrializzati per la sua vicinanza con gli Stati Uniti.

4. La sostenibilità ambientale dei sistemi alimentari e agricoli nazionali come sfida ineludibile

È ormai ineludibile, infine, che faccia ingresso nelle negoziazioni della Cop 28 il tema della transizione dei sistemi alimentari e agricoli nazionali verso obiettivi di sostenibilità ambientale sul versante della mitigazione del riscaldamento climatico.

Pare indubbio, in effetti, che il grado di equità e di eguaglianza dei sistemi alimentari verso l’obiettivo Fame zero indicato dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e la sua conciliazione con le sfide ambientali globali della neutralità climatica e della biodiversità, debbano essere messe al centro, nel prossimo futuro, delle strategie politiche non solo europee ma anche globali.

Su tale versante la strategia europea diretta ad un arricchimento delle finalità delle filiere alimentari oltre la sfera meramente produttiva, con una proiezione verso obiettivi di sostenibilità ambientale può divenire un autentico modello a livello globale. Su tale versante senza dubbio l’Unione europea ha compiuto molti passi avanti dopo la Comunicazione dal produttore al consumatore («From Farm to Fork») e l’impostazione data alla Politica agricola comune dal 2023 al 2027.

L’incentivazione delle prassi agricole che eliminano la CO2 dall’atmosfera e il sequestro di carbonio da parte di agricoltori e silvicultori dovrebbe favorire la decarbonizzazione dei sistemi agricoli e la mitigazione del riscaldamento climatico. La certificazione degli assorbimenti di carbonio sarà certificata, secondo quanto previsto dal Piano d’azione per l’energia circolare, attraverso una contabilizzazione solida e trasparente al fine di verificarne l’autenticità.

Saranno inoltre intraprese dalla Commissione iniziative volte ad accelerare la diffusione di soluzioni utili ad incrementare l’efficienza energetica e il ricorso ad energia rinnovabile nei settori agricolo ed alimentare. Gli agricoltori dovrebbero valorizzare, in effetti, la loro possibilità di ridurre le emissioni climalteranti investendo in digestori anaerobici per la produzione di biogas da rifiuti e residui agricoli.

Un’ulteriore assenza di risposta a queste sfide minerebbe non solo l’efficacia dell’azione per il clima ma anche la credibilità stessa del metodo delle Conferenze internazionali sul clima nell’affrontare quest’impegno cruciale e non più eludibile per le generazioni future.

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