ODP intervista Marco Bentivogli (Indipendenti. Guida allo smart working, Rubbettino, 2020)

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Marco Bentivogli è un attivista e sindacalista italiano, coordinatore e co-fondatore di BASE ITALIA, già segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (FIM CISL) dal 13 novembre 2014 al 13 luglio 2020. In precedenza è stato responsabile nazionale dei Giovani dei metalmeccanici Cisl, tra il 1998 e il 2008 segretario provinciale, prima a Bologna e poi ad Ancona. Dal 2008 è entrato a far parte della Segreteria nazionale. Dal 2018 è componente della Commissione per una strategia Nazionale sull’intelligenza Artificiale presso il Ministero dello Sviluppo Economico e del Gruppo di lavoro sull’intelligenza artificiale presso la Pontificia Accademia per la Vita.

Marco Bentivogli, quali sono le principali motivazioni che l’hanno spinta a scrivere un saggio sullo smart working?

Ho fatto il sindacalista per venticinque anni e mi occupo da sempre dell’impatto della tecnologia sul mondo del lavoro. L’esigenza di scrivere un saggio sullo smart working è nata durante la pandemia (InDipendenti, Rubbettino 2020 e Il lavoro che ci Salverà, San Paolo 2021) durante la quale diversi nodi sono venuti al pettine (parliamo di smart e south working, dei benefici per l’ambiente, per la riqualificazione delle periferie ma anche dell’urgenza di migliorare le infrastrutture ad esempio) ed inevitabilmente alcuni processi sono stati oggetto di una grande accelerazione, un vero e proprio balzo in avanti. L’emergenza Coronavirus è uno spartiacque unico, un punto di non ritorno. Il mondo non sarà più lo stesso e di conseguenza anche il lavoro, crocevia da sempre del cambiamento e delle grandi trasformazioni demografica, climatica e digitale che l’umanità ha davanti. Il dato di fatto reale è che le aziende che già avevano intrapreso un percorso di lavoro agile hanno resistito meglio alla crisi generata dalla pandemia mentre le altre, compresa gran parte della pubblica amministrazione, si sono dovute rapportare alle nuove esigenze con grande difficoltà, potendo ricorrere al massimo a forme di telelavoro piuttosto che di lavoro agile, che invece è il lavoro per obiettivi. Se pensiamo alle aziende più interessanti che assumono giovani talenti, questi chiedono loro un buono stipendio, un buon sistema di welfare ma soprattutto il lavoro per obiettivi e spazi di smart working. 

Guardando all’esperienza pratica dell’ultimo biennio, quali sono stati i principali punti di forza e quali, viceversa, di debolezza nell’utilizzo dello smart working?

Come dicevo tra i punti di debolezza deriva il fatto che in numerosi casi si è messo in atto il telelavoro, cioè lo stesso lavoro svolto in ufficio ma a casa quindi in contesti non idonei, in assenza spesso di una postazione o di una connessione adeguate, lavorando persino più ore al giorno o, viceversa, in altri casi si può parlare di “furbetti” e di vere e proprie smart holidays. I vantaggi dello smart working oltre a riguardare l’ambiente, i costi dei trasporti, il risparmio sulle spese degli edifici destinati agli uffici alla “Fantozzi scrivanocentrici”, sono legati all’opportunità di centralizzare le periferie ma riguardano anche lo sviluppo del dipendente che diventa autonomo nella gestione dei propri spazi e dei propri tempi, con maggiore propensione alla creatività della persona ed in favore di una maggiore conciliazione vita-lavoro. La storia fordista è ormai alle nostre spalle. Bisogna guardare al futuro. Pensiamo ad esempio all’azienda Fastweb, ma sono sempre di più le aziende che adottano questo nuovo alfabeto, dove l’unica scrivania “personale” rimasta è quella dell’Amministratore Delegato.

Nel suo saggio lei evidenza come lo smart working possa consentire anche un’evoluzione nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente, passando dalla c.d. “cultura del controllo”, in termini di presenza fisica e numero di ore-lavoro, a quella della verifica dei risultati conseguiti: quali sono i principali ostacoli al cambiamento culturale nell’approccio alle nuove modalità di lavoro?

Il cambiamento culturale è appunto più difficile da apportare in quanto la mentalità, devo dire piuttosto italiana, del dipendente “sotto controllo” è difficile da cambiare prima di tutto nei manager che spesso non sono formati al mutamento. Tuttavia, non bisogna lasciarli soli in questa fase di transizione in cui ci troviamo. La mentalità di chi governa l’impresa va cambiata anche perché le nuove tecnologie rendono sempre più complesso misurare la produttività in termini di ore di presenza e di pezzi prodotti dalla singola persona. Per gran parte delle funzioni aziendali questo tipo di calcolo si è fatto praticamente impossibile. I vecchi modelli, quindi, si dimostrano superati. Ma per diffondere nuovi concetti ritengo essenziale la creazione di ecosistemi 4.0, che favoriscano l’incrocio e la crescita dei vari fattori abilitanti, compresa una nuova cultura di gestione delle imprese e di formazione dei lavoratori. Quando parlo di ecosistemi 4.0 penso a realtà capaci di attirare investimenti, perché habitat positivi per l’innovazione, e di favorire l’integrazione delle nuove tecnologie nelle imprese italiane, come invece non è avvenuto con altre iniziative che avrebbero dovuto facilitare questo processo. Mi riferisco, per esempio, ai Competence Center del ministero dello Sviluppo Economico, il cui sviluppo è in forte ritardo rispetto ai tempi previsti, oppure ai Digital Innovation Hub, che sono realtà scarsamente integrate nei territori in cui sono state create. Strutture di questo tipo dovrebbero favorire la sedimentazione delle competenze nel territorio e non essere soltanto interfacce propedeutiche all’innovazione. Cambia l’impresa, la mentalità, le gerarchie, le culture organizzative. Perché la finalità principale della maggior parte delle organizzazioni economiche non è quella di creare valore condiviso attraverso l’azione coordinata e cooperativa di diversi soggetti, ma piuttosto indurre i lavoratori ad agire nell’interesse dei loro datori di lavoro. Questa è l’immagine predominante dei lavoratori, sia nell’ambito di molta ricerca economica, sia, soprattutto, in molte di quelle business school che formano le leve del management del futuro.

Naturalmente questo modello non solo è fattualmente falso, ma soprattutto improduttivo, in particolare, rispetto soprattutto a quei lavori nei quali creatività e iniziativa sono elementi essenziali, lavori che oggi caratterizzano gran parte dell’economia mondiale. Addirittura, le organizzazioni a finalità sociale, i partiti sono spesso intrisi dalla cultura del controllo per l’eterno timore della libertà. E così che non si riesce a capire che accanto alla responsabilità, la libertà e l’autonomia sono le uniche leve di generatività, di creazione di ricchezza umana, sociale ed economica. Lo smart working era una opportunità, ora è una necessità urgente. Dunque, urge “un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano ‘dipendenze’ sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori in-dipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale. Certamente non vanno sottovalutati i problemi etici, sociali e di salvaguardia dei diritti dei cittadini, che alcune innovazioni tecnologiche recano con sé. Ma sono problemi che vanno gestiti, mentre abbandonarsi al tecnodisfattismo serve solo a far perdere di vista le opportunità.

Il Ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha deciso di interrompere l’esperienza del lavoro agile semplificato del periodo pandemico nelle pubbliche amministrazioni, in attesa di una migliore attuazione della legislazione vigente. Secondo il Ministro è stata una modalità di lavoro a domicilio “senza contratto, senza obiettivi e senza tecnologia” che non ha garantito i servizi pubblici essenziali ai cittadini italiani. Cosa ne pensa? 

Penso che tornare indietro è sbagliato e che significa gettare via l’esperienza raccolta in tutti questi mesi. Frasi del tipo “la crescita del Pil é dovuta alla fine dello smartworking” non hanno alcun senso. Certo non dovrà più accadere di vedere cartelli con scritto ‘chiuso per smart working’. Al contrario, bisogna semmai dire: ‘Grazie allo smart working potrai fare tutto online, avere i servizi più celermente, anche quelli per i quali ti rivolgi allo sportello’. Molti servizi della Pa sono in presenza dal decreto di aprile 2021 e i ritardi sono spesso gli stessi. Ecco, servirebbe un osservatorio indipendente sulla Pa e la capacità di individuare e distinguere le cause vere delle diverse problematiche. Durante la pandemia, lo smart working è stato esteso a circa la metà dei lavoratori pubblici e ha consentito alle amministrazioni di continuare a operare evitando la paralisi dei servizi, tutelando al tempo stesso la salute dei lavoratori. Si è trattato di un’esperienza preziosa che ha dimostrato come, anche nella Pa, sia possibile riorganizzare i processi all’insegna della flessibilità e della digitalizzazione, creando servizi più resilienti, sostenibili ed efficienti.

Ciò che serve è un’analisi dei servizi pubblici che identifichi le aree nelle quali la produttività e i livelli di servizio sono scesi per effetto dello smart working e possono essere aumentati con un ritorno al lavoro in presenza; le aree, viceversa, nelle quali produttività e livelli di servizio sono migliorati grazie allo smart working, e nelle quali quindi occorre premiare e consolidare i risultati; le aree, infine, dove un ricorso allo smart working si è dimostrato possibile e potenzialmente efficace, ma che richiedono preventivamente investimenti in termini tecnologici, formativi e di ridisegno di processi e servizi. Solo così sarà possibile esprimere giudizi non affrettati.

Quali sono a suo avviso gli elementi indispensabili per rendere lo smart working una risposta credibile alle sfide della sostenibilità e, per numerosi ambiti e settori, un nuovo modo di svolgere il lavoro dipendente?

Come scrivo anche nel saggio libertà, autonomia e responsabilità sono le grandi chiavi di volta del cambiamento. Si tratta di sfide fondamentali previste dal Pnrr alle quali lo smart working può dare un contributo sostanziale, ma che, sull’altare di un preteso stimolo ai consumi, questo nuovo indirizzo del governo sembra ignorare. Per questo è importante che la trasformazione coinvolga tutti senza lasciare indietro nessuno, per approdare insieme ad un cambiamento culturale prima che organizzativo. Il saggio vuole essere una guida pratica che offre un percorso per realizzarlo nelle organizzazioni e indicazioni utili per regolare meglio diritti e doveri dello smart worker. Il messaggio che vorrei passasse è che lo smart working è un lavoro “intelligente” perchè valorizza la reciprocità e trasferisce quote di responsabilità e libertà alle persone, favorendo il loro benessere e la produttività.

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