Parola alla Corte costituzionale: legittimi i d.P.C.m. adottati nell’emergenza Covid

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di Chiara Gentile

ABSTRACT: Con la sentenza n. 198/2021 la Corte costituzionale salva la linea di Governo seguita dallo scoppio della pandemia ad oggi per contenere la diffusione del virus. I d.P.C.m. attuativi delle misure previste nei decreti-legge non violano la Costituzione: nessuna delega della funzione legislativa al Governo.


Con un’importante e attesa sentenza (n. 198/2021), la Corte costituzionale ha ritenuto legittime le restrizioni imposte durante il lockdown e le sanzioni per la loro violazione previste dai decreti-legge nn. 6/2020 e 19/2020.

Preliminarmente all’analisi della sentenza e al fine di comprenderne meglio la rilevanza, è opportuno fornire il quadro generale delle linee di governo seguite per contrastare la diffusione del virus SARS-CoV-2 (c.d. coronavirus o Covid-19).

Il contesto

In seguito allo scoppio dell’emergenza epidemiologica, a livello statale gli strumenti più utilizzati per contenere la propagazione del virus sono stati due:

  1. il decreto-legge, che è un atto avente forza e valore di legge adottato dal Governo, in casi straordinari di necessità e urgenza, che, secondo l’art. 77, co. 2, Cost., deve essere convertito in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione per non perdere efficacia sin dall’inizio;
  2. il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (d.P.C.m.), un atto previsto e disciplinato non dalla Costituzione ma dalla legge (o altra fonte primaria), che è adottato dal Presidente del Consiglio in presenza dei presupposti individuati dalla fonte, la cui efficacia è limitata nel tempo e deve essere precisata all’interno dell’atto stesso.

Come si evince da questa schematizzazione, per il decreto-legge vi è un coinvolgimento almeno successivo del Parlamento, che interviene nella fase della conversione in legge, mentre il d.P.C.m. rimane sottratto all’intervento parlamentare e si configura quale atto interamente governativo.

Sin dai primi decreti-legge il Governo ha rimesso la concreta attuazione delle misure in essi contenute a successivi d.P.C.m., strumenti di più rapida adozione che riescono, perciò, ad adattare le misure disposte in via generale dalla fonte primaria allo sviluppo dell’emergenza.

La gestione della pandemia a colpi di decreti-legge e d.P.C.m. attuativi è stata fortemente criticata per la marginalizzazione del Parlamento, che, in quanto istituzione di massima rappresentanza ed espressione della volontà popolare, avrebbe invece dovuto essere in prima linea, soprattutto perché le misure di contrasto alla diffusione del virus hanno avuto un forte impatto sul godimento e sull’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali (si pensi, per esempio, al divieto di lasciare la propria abitazione e spostarsi nel territorio comunale, all’imposizione di un coprifuoco, all’introduzione di forme di didattica a distanza). Alla luce di queste premesse, è ora possibile esaminare e comprendere meglio la decisione della Corte.

La sentenza

I fatti all’origine della sentenza possono riassumersi come segue.

Il giudice di pace di Frosinone doveva pronunciarsi sull’opposizione proposta da un privato cittadino avverso la sanzione amministrativa di 400 euro, inflittagli per aver violato il divieto di uscire dalla propria abitazione e spostarsi nel territorio comunale, come prescritto dal d.P.C.m. 22 marzo 2020, che, in attuazione del d.l. n. 6/2020, introduceva misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica.

Secondo il giudice di pace, il d.l. n. 6/2020 delegava al d.P.C.m. 22 marzo 2020 la disciplina di nuovi illeciti amministrativi, così attribuendo all’atto la “forza di legge” necessaria richiesta dal principio di legalità delle sanzioni amministrative (art. 1 della l. n. 689/1981), in evidente contrasto con l’art. 76 Cost., che ammette che il Parlamento deleghi al Governo l’esercizio della funzione legislativa solo con apposita legge-delega, e l’art. 77, co. 1, Cost., che specularmente esclude che il Governo possa emanare decreti con valore di legge senza previa delegazione del Parlamento. In sostanza, il decreto-legge, fonte di rango primario, avrebbe rimesso al d.P.C.m., atto di rango sub-primario, l’esercizio della funzione legislativa in violazione del principio di tipicità delle fonti-atto di produzione normativa, al di fuori dell’unica situazione emergenziale in cui la Costituzione prevede una tale delega di poteri al Governo, cioè lo stato di guerra (art. 78 Cost.).

Il nodo centrale della vicenda è dunque la qualificazione amministrativa o legislativa della funzione esercitata dal Presidente del Consiglio dei ministri mediante i d.P.C.m.

In primo luogo, la Corte costituzionale ha dichiarato le questioni di legittimità attinenti al d.l. n. 6/2020 inammissibili per difetto di rilevanza, perché, come evidenziato dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato in giudizio dall’Avvocatura di Stato, al momento dell’infrazione del divieto di uscire dalla propria abitazione il d.P.C.m. 22 marzo 2020 non aveva più efficacia: esso era stato sostituito dal d.P.C.m. 10 aprile 2020, attuativo del d.l. n. 19/2020.

In secondo luogo, le questioni di legittimità attinenti al d.l. n. 19/2020 sono state dichiarate ammissibili, ma non fondate, per le seguenti ragioni.

L’art. 1, co. 1, dello stesso decreto prevede espressamente che le sole misure che possono essere adottate sono quelle elencate nel successivo co. 2, e non anche altre misure indefinite; inoltre, sempre l’art. 1 prescrive la temporaneità di tali misure, adottabili per periodi predeterminati e reiterabili non oltre la fine dello stato di emergenza. Non solo: la scelta delle misure attuative deve avvenire nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, entrambi volti a orientare l’esercizio della discrezionalità amministrativa.

Il d.P.C.m. 10 aprile 2020, nel consentire «solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute» (art. 1, co. 1), e nello stabilire che le disposizioni in esso contenute «producono effetto dalla data del 14 aprile 2020 e sono efficaci fino al 3 maggio 2020» (art. 8, co. 1), ha semplicemente adattato all’attuale andamento della pandemia quanto stabilito in via generale dal d.l. n. 19/2020.

Il legislatore pertanto si è limitato ad autorizzare il Presidente del Consiglio ad attuare «mediante atti amministrativi sufficientemente tipizzati» le misure tipiche previste nella fonte primaria.

Infine, la Corte ha tracciato la linea distintiva tra il d.P.C.m. in questione e il modello delle ordinanze libere e contingenti (c.d. extra ordinem), cui sono riconducibili le ordinanze di protezione civile, emanate anch’esse dal Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi degli artt. 5 e 25 del d.lgs. n. 1/2018 (Codice della protezione civile). Infatti, sebbene entrambi gli atti siano adottati dallo stesso organo, designato da una fonte primaria, nel rispetto dei presupposti in essa individuati, e producano effetti per un periodo di tempo delimitato, il contenuto delle ordinanze extra ordinem è libero e non tipizzato dalla fonte primaria, come avviene per il d.P.C.m.

Il punto

Con la sentenza in esame la Corte costituzionale pone fine al dibattito sulla legittimità costituzionale dei d.P.C.m. adottati per contrastare l’emergenza epidemiologica: nessun conferimento di potestà legislativa al Governo, nessuna violazione del principio di legalità e, di conseguenza, nessuna lesione dei diritti fondamentali per effetto di misure adottate illegittimamente.

Una conclusione con evidenti risvolti positivi, poiché, escludendo che i d.P.C.m. siano incostituzionali, la Corte “salva” la linea d’azione seguita dalle istituzioni sin dallo scoppio della pandemia e, di riflesso, consente di proseguire lungo questa linea senza che ciò determini, di per sé, una illegittima compressione delle libertà e dei diritti dei cittadini. La Corte compie così un passo in avanti e completa la precedente sentenza n. 37/2021, avente ad oggetto la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni nel contrasto alla pandemia, in occasione della quale aveva evitato di affrontare la questione della legittimità dei d.P.C.m., limitandosi a specificare che questi sono atti «comunque assoggettati al sindacato del giudice amministrativo».

In termini analoghi si era precedentemente espresso il Consiglio di Stato nel parere n. 850/2021, rilevando che la linea d’azione governativa è coerente con il sistema delle fonti, nonché enfatizzando che solo lo strumento del d.P.C.m. è in grado di assicurare «la duttilità, l’adattabilità e la flessibilità necessarie ad aderire plasticamente alla continua mutevolezza delle condizioni oggettive di sviluppo e andamento della pandemia».

La sentenza della Corte conduce infine a una riflessione critica. Definendo i d.P.C.m. attuativi della normativa primaria sull’emergenza epidemiologica quali «atti amministrativi» e negando loro la natura di fonti extra ordinem, la Corte prende una posizione netta e condivisibile, non solo per le ragioni suesposte, ma anche perché, visto il carattere meramente “attuativo” di tali d.P.C.m., essi mancano di quella “innovatività” che è propria delle fonti normative di rango primario. Non è chiaro, tuttavia, se il ragionamento della Corte si estenda a tutti i d.P.C.m., come categoria generale, purché «sufficientemente tipizzati» nel contenuto, o si applichi solo a quelli adottati nel contesto dell’attuale pandemia (l’assenza di termini perentori nella decisione della Corte è sottolineata anche da Cavino, 2021). In sostanza, l’interrogativo che sorge è se i d.P.C.m. siano sempre atti amministrativi: ciò rileva, in particolare, dal momento che la posizione espressa dalla Corte si pone in contrasto con quella parte della dottrina che riconduce i d.P.C.m. alla categoria delle ordinanze contingibili e urgenti e, sulla base della capacità di tali ordinanze di derogare alla legge (o ad altra fonte primaria), riconosce loro forza innovativa e quindi natura “sostanzialmente normativa”. 

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