Cambiare i concorsi o cambiare le università?

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di Francesco Merloni

Reagisco, a caldo, ai post, utili e interessanti, di Stefano Civitarese, Giulio Vesperini e Gianluca Gardini. Il tema dei concorsi universitari è da sempre sintomatico del funzionamento del sistema nel suo complesso. Le riforme universitarie degli ultimi decenni hanno tutte puntato a cambiare le regole dei concorsi per cambiare il sistema, con risultati sempre lontani da quanto auspicato (e da quanto veramente necessario).

Semplificando al massimo, i concorsi nazionali di tipo anche ossessivamente disciplinare degli anni ‘80 e ‘90 furono sostituiti da concorsi solo locali, di sede, lasciati alla piena disponibilità degli atenei, forse in omaggio ad un’idea di autonomia universitaria del ministro Ruberti che intendeva valorizzare la responsabilità degli atenei nel reclutamento. Solo reclutando i migliori si era in grado di partecipare a pieno titolo alla comunità scientifica internazionale. Un’autonomia “romantica”, fatta di statuti e regolamenti di ateneo, ma priva di risorse finanziarie adeguate, priva di una vera programmazione delle sedi e dell’offerta complessiva, priva di premi per le università che avessero i migliori risultati: di laureati, di dottori di ricerca, di studenti stranieri iscritti, di ricerca (finanziamenti internazionali o nazionali ottenuti,  risultati raggiunti in termini di avanzamento delle conoscenze), priva di meccanismi perequativi e di solidarietà. Un sistema che rivelò ben presto limiti localistici gravissimi (segnalati nel libro curato da Marco Cammelli e da me nel 2006: ”Università e sistema della ricerca. Proposte per cambiare”).

La controriforma Gelmini ha avuto, invece, il segno apertamente liberista della competizione tra le università (di cui nel frattempo si promuoveva la crescita numerica, indipendente da ogni criterio di qualità). Dai concorsi prima tutti nazionali e poi tutti locali, un modello concorsuale in due fasi; un’abilitazione nazionale, con la quale lo Stato deve garantire un livello minimo, più che di qualità, di produttività scientifica; concorsi locali, di diverse tipologie stabilite dagli atenei, riservati agli idonei nazionali. Spetta agli atenei usare le risorse finanziarie a disposizione (che sono sempre rimaste poche in confronto con gli altri paesi europei, Francia e Germania soprattutto) per gestire dotazioni organiche comunque limitate. Implicita nel modello l’idea di una competizione concorrenziale tra atenei, che si fondi sulla capacità di ottenere finanziamenti anche privati. Attenzione: il modello concorrenziale era in realtà presente anche nelle riforme Ruberti e Berlinguer, anche se non lo si diceva apertamente.

Io penso si debba ripartire da lì, dalla funzione primaria delle università e dal sistema di finanziamento.

Ripartirei dai fondamentali di Andrea Orsi Battaglini: le università (doppiate dalla rete di enti pubblici per le ricerche di maggiori dimensioni) sono la sede della ricerca di base, curiosity oriented e indipendente da una stretta finalizzazione (politica o economica). Anche i paesi più legati all’economia di mercato, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania, mantengono robustissimi strumenti di finanziamento della ricerca pubblica, la sola che produce significativi e duraturi avanzamenti delle conoscenze, poi destinati alle ricadute di innovazione tecnologica. Le imprese private, soprattutto in epoca di globalizzazione finanziaria, tendono semmai a ridurre le spese in ricerca di base. Fino al paradosso di imprese che, una volta privatizzate, hanno drasticamente chiuso interi settori e laboratori di ricerca. (vedi il bel  libro di Mariana Mazzucato, “Lo Stato innovatore”).

L’organizzazione della ricerca scientifica richiede, da noi in virtù dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione, ma è così in tutti i paesi che intendono promuoverla seriamente, un modello di autonomia che affida la scelta degli scienziati agli stessi appartenenti a comunità scientifiche, fin qui, nel modello humboldtiano, identificate con quelle che operano negli atenei.

Le università italiane svolgono, in quanto organizzatrici di una ricerca di qualità, la funzione di istruzione superiore, addirittura in modo totalizzante (da noi non attecchisce il modello tedesco delle Fachhochschulen). La funzione è costituzionalmente, ma di necessità, una funzione pubblica, come livello più elevato di un sistema di formazione che si vuole laico e indipendente da interessi economici, religiosi o di altro genere. L’istruzione è un grande servizio pubblico nazionale, volto alla formazione di un numero, che dovrebbe essere molto più ampio di quanto non si faccia finora, di cittadini pronti a svolgere, in condizioni di parità, le più svariate attività nella società disponendo di un bagaglio di conoscenze che li renda liberi e critici.

La natura pubblica delle università discende dalle funzioni fondamentali loro affidate, che richiedono un elevato grado di competenza nelle persone che vi lavorano. Il principio del concorso pubblico non è dovuto ad un’assimilazione con le pubbliche amministrazioni, ma dal carattere delle funzioni da svolgere.

In secondo luogo, non abbiamo speranze di rilancio del sistema se non abbandoniamo il modello concorrenziale/competitivo, che non ha prodotto altro, in regime di risorse limitatissime, che concorrenza al ribasso. In questo modello il divario tra università grandi e piccole, metropolitane e non, del Nord e del Sud, è molto cresciuto nel tempo. Tanto da non creare stupore se le università penalizzate attuano politiche localistiche di premio di quei tanti ricercatori, utili per tenere in piedi una offerta didattica crescente (ma non produttiva di un numero adeguato, paragonabile con la Germania di laureati, dottori di ricerca e ricercatori di qualità), ma purtroppo meno inseriti in reti e progetti di ricerca di qualità internazionale.

In un sistema di formazione e di ricerca nazionale tutti gli elementi dovrebbero esser portati alla stessa qualità essenziale, rimuovendo attivamente gli squilibri prima segnalati. Non basta consentire agli studenti di andare verso le università migliori, ogni studente ha diritto di avere le stesse possibilità di formazione anche negli atenei della propria regione, così come la ricerca deve essere organizzata al meglio dappertutto. Magari riducendo il numero complessivo degli atenei (a cominciare da quelli nati solo per esigenze puramente locali e clientelari) e delle università telematiche (soprattutto quelle che gestiscono le società di calcio!).

In un sistema nazionale pubblico il reclutamento, soprattutto ai livelli più elevati della carriera, deve avvenire per concorsi nazionali, affidati necessariamente alle comunità scientifiche di riferimento. Convengo con Stefano che settori disciplinari troppo ristretti non aiutano la ricerca interdisciplinare, ma il concorso nazionale deve assicurare che il candidato abbia già dimostrato di aver raggiunto dei risultati di avanzamento delle conoscenze adeguati e di avere un metodo di ricerca che garantisca risultati futuri di qualità. Se poi la chiamata è fatta da Dipartimenti troppo interdisciplinari rischiamo di far decidere chi assumere da persone molto lontane dalla materia coltivata. Settori disciplinari, quindi, molto più ampi, ma sempre legati alla specificità delle grandi ripartizioni del pensiero e della ricerca scientifica.

Non avanzo qui proposte troppo dettagliate, ma forse sarebbe sufficiente: eliminare le ASN, eliminare le fasce di valutazione delle riviste scientifiche, ridurre l’Anvur alla raccolta organizzata della produzione scientifica per garantire che i candidati abbiano livelli di qualità e produzione minimi per accedere ai concorsi; prevedere concorsi nazionali destinati solo alla copertura di posti banditi dalle università, con criteri di selezione più rigorosi e con prove; dare ai concorsi la massima pubblicità e trasparenza, anche attraverso sedute pubbliche destinate alla valutazione e alla discussione dei titoli con i candidati; eleggere le commissioni nazionali (il sorteggio non è affatto garanzia di imparzialità), imponendo una necessaria rotazione, riservando le commissioni ai professori di ruolo a tempo pieno; prevedere un fondo nazionale rotativo volto a finanziare per intero lo stipendio; incentivare la mobilità tra gli atenei con premi specialissimi ai docenti che accettassero di operare in università sfavorite per inserirle in contesti di maggiore qualità (una vecchia idea di Marco Cammelli).

Decisivo un sistema pubblico nazionale di finanziamento della ricerca (come il Deutscheforschungs gemeinschaft tedesco), che destini risorse ai giovani ricercatori, anche in campi di confine e anche “eretici” (o non allineati ai propri maestri), con modalità di grande trasparenza, nella valutazione dei progetti e nella misurazione di risultati (senza penalizzare troppo le ricerche che nell’immediato non danno risultati).

Decisiva una politica nazionale dell’istruzione superiore che finanzi davvero in modo cospicuo e costante le università. Con la sola condizionalità del raggiungimento di alcuni indicatori di successo: numero di laureati, numero di dottori di ricerca, ricerche finanziate da fondi pubblici sulla base di valutazioni rigorose e condotte a termine (con ulteriori premi per le ricerche di significativo avanzamento delle conoscenze).

Una considerazione finale: mi sembra che abbiamo finito per accontentarci di sopravvivere cercando di salvaguardare le nostre esigenze di studiosi in un sistema universitario da un lato troppo esteso e inefficace, appesantito da inutili adempimenti e dall’altro ancora elitario e di classe (le università le pagano con le tasse le famiglie povere ai figli delle famiglie ricche); in un mondo in cui l’Italia non aspira più ad un ruolo di punta, ma arranca adottando in modo passivo ricette che altrove falliscono.

Un paese si giudica da tante cose: una delle più significative è la libertà e la qualità della formazione superiore e della ricerca scientifica di base garantita dal sistema universitario pubblico ai propri cittadini.

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