Università e libertà accademica: abolire i concorsi e/o (almeno) i settori scientifico-disciplinari? 

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di Stefano Civitarese Matteucci

L’università non sembra al momento al centro delle preoccupazioni del governo, della politica e dell’opinione pubblica italiani. Anche l’ondata di inchieste giornalistiche più o meno scandalistiche sui “baroni” e il sistema di reclutamento sembra essersi placata. Il tema dell’accesso alla carriera accademica resta, peraltro, sensibile e nient’affatto risolto, come ben illustra il post di Giulio Vesperini

L’idea che di seguito si intende sostenere è che il problema del reclutamento, apparentemente terreno privilegiato del “diritto amministrativo dei concorsi”, dovrebbe essere visto in una prospettiva più ampia, che metta in discussione la stessa “identità disciplinare” degli accademici. 

Il suddetto calo di tensione nei confronti della politica universitaria si spiega probabilmente con le tante emergenze che stanno caratterizzando la nostra epoca. È, però, nei momenti di crisi che occorrerebbe affrontare i nodi strutturali di una società che non voglia lasciarsi trascinare dagli eventi. L’istruzione superiore è tra le chiavi del “successo” di un Paese, ma l’Italia continua ad arrancare

Come ha ricordato di recente Antonella Polimeni, le università «sono le istituzioni pubbliche per eccellenza dove sviluppare e mettere alla prova nuovi modelli culturali e organizzativi sostenibili; dove rinnovare la didattica, creando percorsi di studio più aderenti alle mutate esigenze della società; dove innovare la ricerca e la sperimentazione di nuove forme aggregative, attraverso collaborazioni scientifiche e formative sempre più improntate alla transdisciplinarità e all’internazionalizzazione». 

L’ultimo rapporto ANVUR (2023) sullo stato dell’università, però, non dispensa ottimismo. Il confronto internazionale sull’andamento del numero di laureati in Italia (sebbene in crescita: 28,3% nel 2021 rispetto al 21% del 2011), vede aumentare il divario rispetto ai principali Paesi europei. Il tasso di abbandono è ancora elevato, visto che circa un quarto delle matricole non si laurea e l’abbandono al primo anno ha raggiunto il 7,3%, ponendoci al penultimo posto in Europa. D’altronde, il numero degli studenti che si iscrivono alle università tradizionali (come le definisce l’ANVUR) è sostanzialmente stabile da un decennio, mentre un aumento consistente di iscritti riguarda le sole università telematiche, le quali, è bene ricordarlo, ancora oggi continuano a funzionare con organici ridotti al minimo e, salvo qualche eccezione, non svolgono attività di ricerca. 

A questo si aggiunge il decremento demografico, che esporrà il sistema universitario a un problema di sottofinanziamento, in una situazione in cui comunque il settore della ricerca è in Italia sostenuto meno che negli altri Paesi europei. 

Come si legge nel rapporto ANVUR, una delle soluzioni, forse l’unica in realtà, a questo specifico problema è la già menzionata internazionalizzazione, che in questo contesto significa attrazione di studenti stranieri. 

Può, tornando al punto, la spinta all’internalizzazione per attrarre studenti – e crudamente risorse – essere disgiunta da un ripensamento della figura dell’accademico e del modo come si diventa tale? Per richiamare ancora Polimeni, ripensare la didattica e la ricerca verso percorsi più aderenti alle mutate esigenze della società comporta «collaborazioni scientifiche e formative sempre più improntate alla transdisciplinarità», quest’ultima non a caso posta accanto all’internalizzazione nella citazione riportata poco sopra. 

Domandiamoci, allora, quanto questo obiettivo sia compatibile con la divisione del nostro sapere in rigidi “settori scientifico-disciplinari” (v. poco oltre) – gelosamente custoditi da altrettante associazioni – entro i quali si decide chi diventerà professore sulla base di concorsi che pretendono di misurare “oggettivamente” il contributo degli aspiranti accademici all’avanzamento degli studi nel settore. Chiunque abbia fatto parte di una commissione concorsuale sa che il modo più sicuro (nel senso di non aggredibile in sede giudiziaria) di bocciare un candidato è sostenere che il suo lavoro non è in linea con i “canoni” del settore. 

Si giunge, così, alla parte più sensibile dell’autonomia universitaria, che Carla Barbati in un articolo del 2015 riconduceva alla metafora del ‘vedere da vicino’, per cogliere «quelle specificità che diventano differenze». Il tenured system, vanto delle università statunitensi, si basa su un documento del 1915 intitolato Declaration of Principles on Academic Freedom and Academic Tenure, il cui principale movente era difendere la libertà di insegnamento e di espressione dei professori universitari nei confronti dei Trusts fondatori delle università, che proprio in quanto Trusts e non “proprietari” non avrebbero potuto invocare «the proprietary attitude and privilege, if they are appealing to the general public for support. Trustees of such universities or colleges have no moral right to bind the reason or the conscience of any professor». Si tratta del richiamo a una tradizione che ben conosciamo in Europa, dalle facultas e nationes delle università medievali alla lotta per l’autonomia della scienza dalla Chiesa e dai sovrani all’epoca della rivoluzione scientifica, e che ritroviamo negli enunciati costituzionali contemporanei, come nell’art. 33 della nostra Costituzione. Le parole che si leggono, però, nella Dichiarazione del 1915 sono di rara efficacia e bellezza (e profeticità quanto agli stipendi dei professori): 

If education is the cornerstone of the structure of society and if progress in scientific knowledge is essential to civilization, few things can be more important than to enhance the dignity of the scholar’s profession, with a view to attracting into its ranks men of the highest ability, of sound learning, and of strong and independent character. This is the more essential because the pecuniary emoluments of the profession are not, and doubtless never will be, equal to those open to the more successful members of other professions. It is not, in our opinion, desirable that men should be drawn into this profession by the magnitude of the economic rewards which it offers; but it is for this reason the more needful that men of high gift and character should be drawn into it by the assurance of an honorable and secure position, and of freedom to perform honestly and according to their own consciences the distinctive and important function which the nature of the profession lays upon them. 

Da questa premessa deriva la formula della garanzia della stabilità della posizione lavorativa dei professori universitari, espressa in questa clausola:  

Definition of Tenure of Office. In every institution there should be an unequivocal understanding as to the term of each appointment; and the tenure of professorships and associate professorships, and of all positions above the grade of instructor after ten years of service, should be permanent. 

È da questa enfasi sul rapporto tra autonomia delle istituzioni universitarie e libertà di espressione che deriva la tradizione nel mondo anglo-americano di non interferenza delle altre istituzioni pubbliche nel reclutamento e nelle carriere degli accademici, al di là del richiamo a principi generali di fairness e transparency, peraltro operanti su un piano strettamente non giurisdizionale. 

Come ben sanno i cultori del diritto pubblico, in molti paesi dell’Europa continentale le cose sono andate diversamente e, in particolare in Italia, la garanzia di inamovibilità dei professori universitari è passata attraverso la loro assimilazione ai pubblici impiegati, con il relativo corredo di burocratizzazione e giuridisdizionalizzazione. I cultori del diritto pubblico sanno anche che i professori universitari (come magistrati, diplomatici e militari) sono pubblici impiegati in senso stretto (non hanno un contratto). 

In un documento sulla riforma dell’università poco antecedente alla legge Gelmini del 2010, l’Accademia dei Lincei, evidentemente in sintonia con la Declaration of Principles on Academic Freedom, osservava che «la questione del reclutamento è strettamente legata all’autonomia delle università e alla loro valutazione: non vi può essere piena autonomia se le università non sono completamente responsabili delle loro scelte sul reclutamento […] La Commissione ritiene che la condizione ideale sarebbe quella dell’abolizione dei concorsi [enfasi aggiunta], materia oggettivamente difficile e sulla quale si concentra il maggior numero delle distorsioni patologiche, provocanti il discredito del sistema, coinvolgendo anche quanti – e sono la maggioranza – operano con rigore morale e rispetto della dignità della istituzione universitaria». Aggiungeva, poi, con buona dose di realismo, di non ritenere «possibile, forse, una immediata attuazione del sopradescritto meccanismo». 

Per quanto osservato all’inizio, una simile prospettiva è oggi persino meno realistica. La domanda posta più sopra abbraccia, però, un altro aspetto, anch’esso sconosciuto nella maggior parte dei sistemi universitari con cui solitamente ci confrontiamo, quello dei settori scientifico-disciplinari definiti per decreto. Non si tratta delle aree ERC in cui l’Unione europea suddivide i saperi soprattutto al fine di selezionare i beneficiari dei finanziamenti per la ricerca (attraverso questi individuando esperti in grado di valutare le relative proposte) e ancor prima di allocare gli stanziamenti tra tali aree. 

Si tratta, invece, della determinazione da parte del Ministero per l’università e la ricerca – anche in questo caso, pertanto, un potere esterno alle università – di centinaia di “declaratorie” (i settori scientifico-disciplinari appunto) entro cui ciascun accademico deve necessariamente trovare (sin dalla più tenera età, cioè dal dottorato) la propria collocazione e il proprio destino. Come accennato sopra, il legame tra il sistema dei concorsi e questi settori è strettissimo e cruciale. Sono i professori di un settore a decidere chi può entrare in quel settore, sia conferendo l’abilitazione nazionale sia sedendo nelle commissioni locali. Basterebbe recidere questo legame per risolvere buona parte dei problemi dei concorsi universitari. 

Il recente intervento di maquillage (con l’art. 14-comma 6bis del decreto-legge n. 36/2022), che introduce i “gruppi disciplinari” come contenitori dei “settori” e che porterà per quanto è dato sapere alla soppressione di qualche settore meno protetto (tra cui proprio il diritto pubblico), lungi dal confutare quanto osservato, rafforza la centralità della compartimentazione burocratica del sapere come strumento di allocazione di potere. 

Se è vero che i settori sono stabiliti formalmente dal Ministero, è anche vero che la comunità accademica italiana è corresponsabile, tant’è che la proposta dei nuovi gruppi disciplinari è affidata al Consiglio universitario nazionale, che l’ha formulata sin dal marzo 2023, per poi secretarla (al link troverete il testo della deliberazione, ma non l’allegato, la sostanza della proposta; questa si trova, invece, ufficiosamente, nel link precedente). L’argomento a difesa del sistema si incentra, di solito, sulla necessità di preservare le tradizioni e peculiarità disciplinari, come se negli altri paesi queste non vi fossero. Se si va a cercare in prestigiose università straniere si trovano, però, studiosi che si disegnano “settori” iper-specialistici (professor of History of Slavery) accanto ad, altri, al contrario, assai ampi. Nel Regno Unito di frequente le università cercano professori o ricercatori “in Law” per poi, magari, lasciare al momento della formazione della short-list o del colloquio la decisione sul se e quale specialismo eventualmente privilegiare. Anche questo – forse soprattutto questo – è parte dell’autonomia della ricerca e dell’università. 

La settorializzazione per decreto produce, invece, fatalmente la sclerotizzazione del sapere. Quanti dei lavori che produciamo (in particolare proprio quelli che servono a progredire nella carriera) sarebbero comprensibili e utili al di fuori di una ristretta cerchia di iniziati? 

Come si può, allora, in conclusione, auspicare transdisciplinarità e internazionalizzazione se l’incentivo è tutto sulla coltivazione di linguaggi e tecniche mutualmente esclusivi e impermeabili spesso all’interno delle stesse aree disciplinari che dovrebbero condividere almeno metodi e conoscenze di sfondo? Il diritto per esempio.

 

Riferimenti bibliografici

C. Barbati, L’entrata in scena della ’nuova’ valutazione, Scuola democratica, 3/2015, 705-709.

A. Polimeni, L’università verso la Quarta missione, Scuola democratica, 2/2023, 343-6.

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Una risposta

  1. Riccardo Palumbo ha detto:

    Caro Stefano, complimenti! Bellissimo articolo.
    Condivido pienamente le tue idee.
    Su un punto mi sento di proporre una ulteriore considerazione.
    Uno sbilanciamento nel potere di incidere sulle carriere accademiche a favore delle corporazioni dei professori (riuniti in SSD) può tradursi (e ritengo si traduca) in un senso di identificazione con il proprio SSD che surclassa sistematicamente il livello di identificazione con il proprio ateneo (ossia fondamentalmente con l’Ente che poi a fine mese paga lo stipendio).
    In qualsiasi organizzazione questo disallineamento genererebbe quantomeno problemi di competitività.
    Le università non sono un’eccezione.
    E’ anche vero che in quegli atenei in cui il datore di lavoro può esercitare un maggior controllo, sia sul reclutamento sia sulla gestione delle risorse (tipicamente gli atenei privati), abbiamo spesso la sensazione che occorrerebbe un “riequilibrio” a garanzia della autonomia e professionalità accademica.
    Penso che non si possa correre il rischio di perdere questa autonomia e che allo stesso tempo questa autonomia non debba essere demandata alle decisioni di una corporazione.
    Complimenti ancora!

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