Premierato all’italiana: paura no, ma una certa perplessità e qualche preoccupazione sì

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di Stefano Civitarese Matteucci

I post di Tommaso Edoardo Frosini e Francesco Bilancia rappresentano un’ottima occasione per intavolare una discussione franca, che è poi la missione essenziale di questo Blog, sulla “riforma Meloni”.

Avendo espresso in altra sede la mia opinione sugli aspetti problematici della proposta, vi sono alcuni passaggi del post di Frosini che mi hanno sollecitato tre ordini di osservazioni critiche.

1.  Il “mito” della stabilità

Quando e perché la “stabilità” è diventata un valore tale da dover essere posta a base di una riforma costituzionale? Ormai da molto tempo si dirà, soprattutto se si accosta a un’altra parola più usata in passato, quale la governabilità. Come ci ricorda Gianfranco Pasquino la stabilità è una faccia della governabilità, l’altra essendo l’efficacia decisionale. Nel dibattito pubblico questa distinzione resta sottotraccia, però, e si tende ad affrontare ogni questione di governabilità sotto la rubrica della ricerca di stabilità politica. L’obiettivo della stabilità è la prima cosa che sottolinea il comunicato stampa del Governo del 3 novembre 2023: «La riforma costituzionale ha l’obiettivo di rafforzare la stabilità dei Governi». Nella prima frase della relazione al DDL governativo, a sua volta, leggiamo con ancora maggiore enfasi, che «la presente proposta di revisione costituzionale ha l’obiettivo di offrire soluzione a problematiche ormai risalenti e conclamate della forma di governo italiana, cioè l’instabilità dei Governi».

Questo richiamo alla stabilità dei governi è, insomma, diventato una sorta di mantra, ampiamente condiviso a destra e sinistra. Come è stato dimostrato da pioneristici studi negli anni Settanta, esiste un “illusory truth effect”. Ascoltare o leggere un’affermazione ripetuta nel tempo rende più probabile che la consideriamo vera (a volte con un grado di convinzione difficilissimo da eradicare) o, nel nostro caso, trattandosi, di valori, valida o comunque ormai acquisita, non meritevole di discussione. L’illusory truth effect continua ad assillare filosofi e psicologi, perché credo siamo tutti d’accordo che ascoltare un’affermazione non abbia alcuna specifica relazione con la sua verità. Nel nostro caso, a me pare sia pienamente meritevole di discussione il fatto che la stabilità sarebbe un valore da porre sullo stesso piano di altri, come il principio democratico, un’idea della separazione dei poteri come implicante una reciproca cooperazione tra questi o il perseguimento di politiche essenziali per la comunità. Non è, infatti, per nulla scontato che irrigidire in determinate formule “costituzionali” le dinamiche politiche (leggasi stabilità) consenta automaticamente di migliorare l’efficacia decisionale, soprattutto nei passaggi più delicati nelle vicende di uno stato, quando può risultare prudente accantonare una logica fisiologicamente antagonista in nome di un più ampio interesse nazionale.

Invece, il presupposto di partenza di queste riforme non è più neanche problematizzato, è un fatto “conclamato”. Rimetterlo in gioco, significa chiedere ai proponenti di tali riforme di giustificare la necessità o anche solo desiderabilità di questa e altre riforme costituzionali, oltre il richiamo al “mantra” della stabilità. Spiegando, per esempio, perché questa dovrebbe avere la meglio sulla possibilità di fronteggiare attraverso i meccanismi parlamentari eventi come una crisi internazionale o una crisi economica.

Si risponde spesso, cambiando, però, inavvertitamente il piano del discorso, che è proprio la democrazia (i cittadini) a esigerlo, così come i cittadini vogliono il loro sindaco per cinque anni. Il cambiamento del piano del discorso è evidente nel fatto che dalla stabilità si passa, così, al principio democratico. Anche qui, però, domandiamoci come si possa sapere che i cittadini vogliono ardentemente «un presidente del consiglio … espressione di una indicazione elettorale». A me sembra vi sia un salto logico tra l’osservare che i cittadini votano per eleggere il sindaco (del resto lo stabilisce una legge del Parlamento come tante altre cose che facciamo con più o meno entusiasmo o apatia) e dedurre da questo che i cittadini vogliono fare lo stesso con il governo, cioè trasformare il presidente del consiglio in un primo ministro, o “sindaco d’Italia”. Lo stesso dicasi per l’argomento che si ispira a una sorta di simmetria o “eleganza” istituzionale. Sarebbe, vale a dire, cacofonico che si eleggano sindaci e presidenti di regioni e non il capo del governo.

Un’idea disincantata della democrazia (rappresentativa) dovrebbe, invece, portarci ad accettare che qualunque meccanismo escogitiamo è sempre una più o meno pallida approssimazione alla sovranità popolare, che si esercita “nelle forme e nei limiti” costituzionali. In altre parole, come spesso diciamo agli studenti, la rappresentanza è piuttosto una rappresentazione e il divieto di mandato imperativo sta lì a ricordarcelo. Mi sembra, in altre parole, poco promettente la giustificazione della “volontà della gente”. Riportando, allora, il discorso sul piano “stabilità vs democrazia” (quest’ultima intesa come insieme di meccanismi che consentano decisioni il più possibile ragionate e discusse), mi pare che vi sia più di una ragione per esprimere cautela sull’irrigidimento di un meccanismo politico che (come dimostra proprio l’attuale esperienza di governo) può funzionare benissimo anche con le attuali regole. E a non dare per scontato che la stabilità sia un obiettivo necessariamente da perseguire modificando la costituzione e non già un ingrediente certamente importante per il “buon governo”, ma non certo autoassolventesi.

2. Il Presidente della Repubblica come King Charles III?

Un punto di snodo in questo discorso è il ruolo del Presidente della Repubblica. Nel post si legge che il Presidente del consiglio «sarebbe l’effettivo titolare dell’indirizzo politico, con alcune prerogative costituzionali, quali, soprattutto, il potere di scioglimento anticipato delle Camere». Questa posizione è stata espressa anche da Marcello Pera in un’intervista sulla Repubblica del 7 novembre 2023, il quale domanda al suo intervistatore, riferendosi al sistema politico britannico, se «ce li vede il re o la regina che si occupano di queste cose». Il problema, cioè, è che il DDL approvato dal governo non consegna tale potere nelle mani del Presidente del consiglio. Prevede, in compenso, una strana soluzione all’ “italiana” (il famoso antiribaltone), criticata anche da Frosini, che consente al Presidente della Repubblica di nominare un’altra/o prima/o ministra/o purché sia stata/o eletta/o nelle fila della coalizione vittoriosa alle elezioni. A quanto sembra, leggendo il comunicato stampa del governo, questa residua (piuttosto “vincolata”) competenza del Presidente della Repubblica dovrebbe convincerci della volontà di «preservare al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, figura chiave dell’unità nazionale». L’omaggio al ruolo del Colle è, però, solo di stile, perché il Presidente della Repubblica è vincolato a ricercare qualcuna/o che sia disponibile a portare avanti un programma che molto probabilmente non interessa più coloro che lo avevano formulato. Tra l’altro, per come è scritta, la disposizione non garantisce contro il «transfughismo e il trasformismo parlamentare» (sempre dal citato comunicato governativo). Se il parlamentare che «è stato candidato in collegamento al Presidente eletto» passa ad altro schieramento, e con lui altri, il ribaltone è servito. Probabilmente questo aspetto sarà corretto durante l’iter parlamentare, perché l’intenzione sembra quella di far sì che il possibile nuovo premier faccia ancora parte della vecchia maggioranza al momento del conferimento dell’incarico.

Resta un problema fondamentale, su cui Frosini e Pera hanno ragione: il premier nel Regno Unito decide quando si va a nuove elezioni. Non va dimenticato, tuttavia, che il primo ministro britannico è il leader di un partito (non è eletto direttamente) e che questi può cambiare durante una legislatura tutte le volte che la maggioranza lo ritenga opportuno. Anche a questo proposito, occorre chiedersi per quale motivo sarebbe desiderabile da noi un sistema del genere (che peraltro comincia a scricchiolare anche in Gran Bretagna dove funziona da oltre due secoli sulla base di convenzioni). Perché dovremmo ritenere che (al di là delle legittime opinioni politiche), in un paese rissoso e diviso (o se preferiamo ricco di pluralismo) sia un male avere governi di unità nazionale (i governi tecnici non esistono, sostiene condivisibilmente Marcello Pera) o di larghe intese, per esempio, per fronteggiare una pandemia? Dopo anni di discussioni spesso sterili e velleitari tentativi di “grandi riforme” mi parrebbe più saggio venire a patti con il fatto che un sistema politico complesso e articolato come quello italiano non si presta a essere semplificato “per decreto”. Si perdoni la battuta, ma il fatto che dopo oltre due settimane dalla sua approvazione in Consiglio dei ministri non si disponga del testo ufficiale di una riforma di tale importanza, assomiglia ai famosi decreti-legge scritti dopo essere stati deliberati “in linea di massima”.

Il superbonus 110:2 %

Questo conduce al punto più sorprendente di tutta la riforma, quello di un super premio di maggioranza consacrato nella Costituzione che garantisce il 55% dei seggi in Parlamento. Sul punto ha già scritto Francesco Bilancia in modo esauriente quanto alla sua dubbia costituzionalità. Esso disvela (e francamente preoccupa anche un po’ perché i governi passano e la Costituzione resta) il senso ultimo del richiamo alla “stabilità” e all’idea della democrazia come elezione di un capo-popolo che deve comandare … sorry, governare.

Autore

S. Civitarese Matteucci

Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara

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