Se le regole del calcio sono norme giuridiche…

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di Guido Clemente di San Luca (*)

Non è revocabile in dubbio che il calcio abbia, a livello mondiale, un rilevantissimo impatto socio-economico. Esso, infatti, si radica nel tessuto ordinamentale generale (nazionale e sovranazionale), suscitando passioni, alimentando il ‘campanilismo’, ma anche promuovendo il commercio e, più in generale, influenzando significativamente l’economia. L’organizzazione calcistica coinvolge una molteplicità di interessi, anche di rilievo pubblicistico, e movimenta una elevatissima quantità di risorse. Secondo la 12ª edizione del ReportCalcio, il calcio professionistico ha «un impatto indiretto e indotto sul PIL italiano pari a 10,2 miliardi di euro e oltre 112.000 posti di lavoro attivati» (si v. www.calcioefinanza.it, 13/7/2022).

Rappresenta, dunque, una evidente ‘anomalia’, che, a fronte di una siffatta rilevanza, si riscontri l’assenza, nell’organizzazione del settore, dei soggetti portatori degli interessi coinvolti (si pensi, ad esempio, ai milioni di praticanti amatoriali e atleti dilettantistici, ai miliardi di appassionati e tifosi, ai detentori di azioni delle società quotate in borsa, agli scommettitori, ecc.), ciò reclamando la previsione di una qualche forma di controllo pubblico sull’attività delle figure istituzionali che lo governano. Se ne ricava che solo in apparenza il giuoco del calcio rappresenta un oggetto di studio, a dir così, ‘leggero’. E, anzi, il suo ordinamento presenta tutti gli elementi costitutivi di un vero e proprio ordinamento giuridico.

Se, per un verso, è difficilmente discutibile che l’ordinamento sportivo in generale sia ‘originario’ (sebbene non sovrano) e, contemporaneamente, ‘particolare’. Originario in quanto formatosi e sviluppatosi in maniera autonoma, ad iniziativa di soggetti aventi comunanza di interessi e valori. Particolare in ragione dell’interesse perseguito, circoscritto al fenomeno sportivo (sia pur in tutta la sua ampiezza). Per altro verso, sembra difficilmente controvertibile che, all’interno dell’ordinamento sportivo, quello del calcio, in special modo, si presenti quale ordinamento ‘derivato’ e ‘settoriale’. Derivato in quanto dipendente dall’ordinamento sportivo di cui rappresenta un segmento (restandovi subordinato), sia pur caratterizzato da un’organizzazione assai complessa. Settoriale in quanto il calcio rappresenta soltanto uno degli ambiti di cui si compone l’ordinamento sportivo nazionale.

Quello del calcio, quindi, è un ordinamento giuridico, e giuridiche perciò devono essere considerate le regole del gioco che lo disciplinano. Sebbene il loro contenuto sia inopinabilmente tecnico, invero, il loro involucro formale presenta tutti i caratteri delle norme giuridiche. Si discute se tali norme siano espressione di diritto soggettivo, ovvero oggettivo. In una prospettiva parzialmente diversa, se esse si inscrivano nel cd. ‘diritto dei privati’ (diverso dal diritto privato dello Stato), oppure, almeno in parte, nel diritto pubblico.

Ebbene, sembra proprio che le regole del calcio vadano considerate norme giuridiche espressione di diritto oggettivo (pubblicistiche o privatistiche che siano), giacché generate da un soggetto normatore, non potendosi accedere alla prospettiva secondo cui esse costituiscano norme giuridiche espressione di diritto soggettivo, trovanti origine in una volontà negoziale. Ciò nondimeno, nel fenomeno sono tuttora presenti rimarchevoli profili di rilevanza giuridica civilistica (parte non insignificante dei contratti dei calciatori, di quelli di sponsorizzazione, dei diritti d’immagine, ecc., il prevalente interesse sottostante restando però comunque pubblicistico), espressione, tuttavia, non del ‘diritto dei privati’, bensì del diritto privato dello Stato.

Resta in ogni caso tutt’altro che pacifico qualificare come giuridiche le regole che disciplinano il gioco del calcio (sebbene sembri difficile non convenire che la ‘giuridicità’ derivi dal fatto che l’atto contenente la norma abbia ‘attraversato’ la procedura per la sua produzione formalmente prescritta in quel dato ordinamento).

Benché naturalmente funzionali a disciplinare un’attività intrinsecamente ‘privatistica’, le regole in parola sono pure strumenti per la tutela di interessi ultra-individuali: basti pensare alla previsione, fra le altre, del reato di «frode in competizioni sportive», dalla quale s’inferisce inequivocabilmente la rilevanza pubblicistica del risultato di esse. Sicché ben si può non infondatamente ritenere che rappresenti una vera e propria ipocrisia formalistica individuare la genesi giuridica della norma tecnica (sportiva) nella sua ‘accettazione’ da parte dei giocatori, in un «accordo tra le parti».

Pertanto, l’interpretazione delle regole del gioco non può sfuggire alle tecniche proprie dell’ermeneusi giuridica. In particolare, quella che si è sviluppata in più di un secolo di giurisprudenza amministrativa, la quale ha progressivamente sindacato, in maniera sempre più penetrante, sull’esercizio del potere della P.A. Il Regolamento del Giuoco del Calcio ed il Protocollo VAR, infatti, sono infarciti di disposizioni che contemplano la presenza di ‘concetti giuridici indeterminati’, nel riempire di contenuto i quali l’attività di polizia amministrativa (e non giustiziale) dell’arbitro, di volta in volta, non può sfociare nel suo arbìtrio, come se egli fosse legibus solutus, dovendo restare entro i limiti concettuali elaborati dalla giurisprudenza con riferimento al merito amministrativo.

Del resto, non v’è massima più fuorviante che quella di consueto richiamata nel gergo dei commentatori del gioco: «rigore è quando arbitro fischia». Giacché, così opinando, si finisce per sancire il primato dell’essere sul dover essere. In altre parole, l’effettività diventerebbe così fonte giuridica in luogo del paradigma normativo. Per garantire il rispetto delle norme, l’arbitro deve aver riguardo al Regolamento, non potendo sostituire a questo la sua opinione ‘calcistica’.

Il dibattito mediatico sull’applicazione corretta o meno delle regole del gioco quasi mai tiene conto degli elementi di giuridicità fin qui richiamati, non svolgendosi sulla base di opinioni tecnico-giuridiche (bensì, di nuovo, di quelle ‘calcistiche’) dei commentatori. La discussione sulla diseguale applicazione delle regole, nei vari interlocutori del palcoscenico mediatico, quasi sempre patisce palesemente tre vizi: la sostanziale scarsissima conoscenza dell’oggetto del confronto, la presunzione di conoscerlo e una buona dose di spocchia supponente derivante dallo status soggettivo rivestito (di ex arbitro, di giornalista sportivo, di commentatore ex calciatore o allenatore).

L’oggetto del confronto, infatti, dovrebbe essere costituito soltanto dalle disposizioni del Regolamento e del Protocollo VAR, solo con riguardo alle quali andrebbe analizzato il comportamento dei giocatori per verificare se è conforme o no al paradigma normativo di riferimento (insomma, ci si dovrebbe interrogare esclusivamente se l’azione di volta in volta in esame sia stata compiuta, o no, in conformità della relativa prescrizione regolativa).

Pertanto, gli argomenti adoperati assai di frequente (quali, ad esempio, «il calcio è sport di contatto, e non tutti i contatti sono falli») sono, se non assolutamente banali, del tutto inconferenti: banali se si considera la loro ovvietà, inconferenti se con essi si sottintenda il possibile aggiramento della regola. Non tutti i contatti sono legittimi; la regola, infatti, ne qualifica alcuni come sanzionabili. E non tutti i contatti sono falli, se dalla regola non sono qualificati come sanzionabili. Non è molto difficile.

È, ad esempio, assurdo sostenere – come si sente sempre più spesso – che «si danno troppi rigori», fuori dall’area non venendo rilevati i falli per i quali in area, dopo revisione VAR, vengono assegnati calci di rigore. Si può a ragione auspicare – non che si lascino correre i falli per consentire la ‘fluidità’ di un ‘gioco maschio’ (senza contare il luogo comune contenente l’insopportabile discriminazione di genere), e che, in base a ciò, si valuti l’operato degli arbitri («quell’arbitro è bravo perché lascia giocare», «quell’altro no perché è troppo fiscale»), bensì – che venga in generale garantito l’eguale rispetto delle regole. Il problema, quindi, è che si commettano falli non rilevati per errore (non rimediabile) nel mezzo del campo; non che i falli commessi in area di rigore vengano rilevati e sanzionati, essendo divenuto pressoché impossibile farla franca mediante la revisione VAR.

Insomma, un fallo è un fallo, e va sanzionato anche se commesso all’esterno dell’area di rigore. Nella prospettiva della legalità, è un risultato virtuoso se, attraverso il VAR (correttamente definibile quale strumento per l’esercizio di autotutela in contemporanea), l’ordinamento riesce ad evitare errori di rilevazione in area di rigore. Invece, è un problema di legalità che non si riescano ad evitare fuori area (perché il Protocollo non prevede che il VAR possa intervenire sempre, bensì soltanto nelle limitate ipotesi tassativamente indicate, la garanzia dell’autotutela non essendo estesa ai falli commessi fuori dall’area di rigore). Sostenere l’inverso è illogico e paradossale. Soprattutto perché, nell’interpretazione della regola ai fini della sua applicazione, viene impiegata l’analogia in maniera, a dir così, ‘inappropriata’.

Evidentemente, altra cosa è discutere sulla sussistenza del fallo (a prescindere da dove venga commesso). Ma questo ragionamento non può svolgersi sul confronto fra le diverse opinioni ‘calcistiche’ dei singoli. Le regole del calcio non sono più quelle di una volta. È tempo che i nostalgici se ne facciano una ragione. Il parametro di riferimento è fissato dalla norma, e non può esser costituito dalla idea di calcio che ciascuno professa.

(*) Ordinario di Diritto Amministrativo, Università della Campania Luigi Vanvitelli. Il post è frutto del comune pensiero dell’A., di Giovanni Martini e di Mario Paladino.

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