Suicidio assistito: obblighi e responsabilità dell’amministrazione sanitaria

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di Nicoletta Vettori

Il post di Alessandra Pioggia pone l’attenzione su un tema tanto importante quanto problematico.

A distanza di oltre quattro anni dalla sentenza n. 242 del 2019, con cui la Corte costituzionale ha riconosciuto le condizioni di liceità del suicidio assistito, manca ancora una legge; mentre aumentano le persone che si rivolgono alle aziende sanitarie per richiedere l’accertamento di quelle condizioni, senza però ottenere risposte adeguate.

I casi noti (per merito dell’Associazione Luca Coscioni) sono sette:

– in un caso la paziente (Sibilla) ha ricevuto un espresso diniego per riscontrata mancanza dei requisiti;

– in due casi (Fabio Ridolfi e Laura Santi) le Asl sono rimaste inerti, nonostante la legittimità delle richieste fosse stata confermata dal giudice;

– in tre casi (“Mario”, Antonio, Anna) l’istanza è stata accolta soltanto a seguito dell’intervento del Tribunale;

– in un caso (quello di “Gloria”) la struttura ha proceduto spontaneamente.

Soltanto in due ipotesi (Anna e Gloria) l’azienda sanitaria, dopo aver effettuato le verifiche dovute, ha messo a disposizione anche il farmaco, la strumentazione per l’auto-somministrazione e il personale medico (individuato su base volontaria) deputato a fornire eventuale assistenza.

Le resistenze nel dare attuazione alla sentenza e la diversità delle risposte dimostrano l’opportunità di un intervento legislativo e rendono di estremo interesse verificare quale sia lo spazio per una disciplina regionale.

Prima ancora, però, è necessario chiarire cosa sia già doveroso, pur in assenza di una legge, e quali siano le responsabilità cui si espongono le strutture sanitarie che si rifiutino di erogare le prestazioni richieste.

1. Il primo aspetto da precisare è cosa sia possibile pretendere dalle aziende sanitarie in base alla sentenza n. 242/2019.

Come noto, la Corte costituzionale dopo aver prospettato (con l’ord. n. 207/2018) l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., ne ha dichiarato la (parziale) illegittimità con la sent. n. 242/2019, specificando le condizioni cui è subordinata la non punibilità dell’aiuto al suicidio di persone pienamente capaci di autodeterminarsi, affette da patologie irreversibili, fonte di sofferenze da queste ritenute intollerabili e dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. A tal fine ha affidato la verifica di tali condizioni e delle modalità di esecuzione alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Da tale pronuncia, dunque, derivano specifici obblighi di prestazione per l’amministrazione sanitaria. In particolare si tratta di prestazioni di informazione e di accertamento da svolgere secondo un procedimento a istanza di parte che, in assenza di una legge ad hoc, non può che essere regolato dalla disciplina generale (l. 7 agosto 1990, n. 241). E si articola in due fasi.

La prima ha ad oggetto la verifica dei requisiti di liceità del suicidio assistito, ovvero delle condizioni di salute e di consapevolezza del paziente, attraverso la «procedura medicalizzata» di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017 (sent. 242 del 2019 § 5 del Considerato in diritto).

Sotto questo profilo, le strutture sanitarie a cui sia rivolta una richiesta devono garantire personale competente a fornire idonea informazione, proporre azioni di sostegno (anche psicologico) al paziente e ai suoi familiari, prospettare le possibili alternative, tra cui l’eventuale inserimento in un percorso di cure palliative, e acquisire il consenso informato.

La seconda fase della procedura è diretta alla verifica delle modalità di esecuzione, ovvero alla definizione del farmaco e dei metodi di auto-somministrazione più adeguati alla condizione del paziente.

Al riguardo la Corte costituzionale si è limitata ad affermare che «dovranno essere tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze», senza definire i passaggi procedurali, ad eccezione dell’esigenza di coinvolgere i comitati etici territorialmente competenti.

Né del resto avrebbe potuto fare diversamente, considerato che la tutela della salute è materia di competenza concorrente e che le discipline regionali di organizzazione dei servizi hanno configurato modelli molto diversi.

Nondimeno, si tratta di attività doverose che, in mancanza di una specifica previsione, devono essere concluse nel termine di 30 giorni (ex art. 2. L. n. 241 del 1990), fatte salve le proroghe necessarie all’acquisizione del parere del comitato etico.

La vicenda Englaro, infatti, ha chiarito che il riconoscimento di un diritto da parte della giurisprudenza, pur in assenza di legge, non esclude la sua esigibilità nei confronti dell’amministrazione sanitaria (Tar Lombardia, sez. III, 26.1.2009, n. 214; Cons. Stato, sez. III, 2.9. 2014, n. 4460).

Ciò perché le attività di prestazione e di organizzazione possono trovare base e disciplina anche direttamente nelle norme costituzionali, per come interpretate dalla giurisprudenza.

Ma anche la sent. n. 242/2019 lo conferma: nel momento in cui il Giudice costituzionale ha ricondotto l’aiuto al suicidio agli artt., 2, 13, 32, co. 2, Cost. e ha affidato specifici compiti alle strutture sanitarie, è in queste norme che si rinvengono il fondamento e la disciplina legale delle attività che queste devono svolgere.

E, infatti, la doverosità dei compiti in questione è stata riconosciuta dal Ministro della Salute (v. circolare del 9.11.2021 inviata alla Conferenza Stato-Regioni) e confermata dalla giurisprudenza, che ha ordinato alle Asl di provvedere, escludendo che potessero considerarsi esonerate da eventuali lacune normative o inadeguatezze organizzative (Trib. Ancona, ord. 9.6. 2021; Trib. Ancona, ord. 1.2. 2022; Trib. Trieste, ord. 4.7.2023).

2. Chiariti gli aspetti di immediata esigibilità, è necessario chiedersi quali sono le responsabilità cui si espongono le Asl in caso di rifiuto od omissione.

Non si tratta di un profilo meramente teorico, dal momento che in alcuni casi gli interessati hanno presentato un esposto per rifiuto d’atti di ufficio, su cui dovrà pronunciarsi la magistratura penale, e in una pronuncia recente il giudice ha condannato la p.a. a provvedere entro un termine, prevedendo l’obbligo di pagare una somma di denaro per ogni giorno di ritardo (Trib. Trieste, ord. 4.7.2023).

Inoltre, mi pare difficilmente contestabile che le Asl possano essere chiamate a rispondere anche a titolo di responsabilità extracontrattuale.

Dato che le verifiche da svolgere costituiscono il presupposto per l’esercizio di una libertà fondamentale, un rifiuto o un’inerzia illegittimi integrano un’ipotesi di danno ingiusto.

D’altra parte le omissioni, i ritardi, i ‘rimbalzi’ di responsabilità tra organi (commissione medica e comitato etico), incidono profondamente sulle posizioni soggettive di pazienti estremamente vulnerabili, determinando il protrarsi di sofferenze intollerabili o, addirittura, inducendoli a optare per soluzioni onerose e (da loro ritenute) meno dignitose, così da cagionare danni (patrimoniali e non patrimoniali) al paziente e a eventuali familiari.

Peraltro, il consolidarsi di una giurisprudenza favorevole, fa sì che sia il rifiuto che l’inerzia non possano considerarsi scusabili, tanto da integrare condotte quantomeno colpose.

Anche sotto questo profilo, del resto, una delle pronunce sul caso Englaro costituisce un significativo precedente (Tar Lombardia, sez. III, 6.4. 2016, n. 650).

3. Tutto ciò non esclude che sia opportuno un intervento normativo; anzi, date le resistenze riscontrare, sarebbe oltremodo utile per dare certezza alle persone malate, agli operatori e alle stesse aziende sanitarie.

Al riguardo ritengo che essendo in gioco diritti fondamentali della persona, ragioni di uguaglianza e parità di trattamento, rendano preferibile un intervento legislativo dello Stato, che naturalmente potrebbe anche superare i ‘confini’ tracciati dalla sentenza della Corte costituzionale. In particolare per quanto riguarda il problematico requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, che genera discriminazioni fra i possibili richiedenti e su cui si stanno registrando interpretazioni discordanti.

Tuttavia, come ha già sottolineato Alessandra Pioggia, di fronte all’inerzia del Parlamento vi è spazio per un intervento delle regioni che, nel rispetto di titoli di competenza statale concorrente e esclusiva (i.e. l’ordinamento civile, cui sono riconducibili i principi sul consenso informato) possono senz’altro disciplinare i profili organizzativi: la composizione degli organi deputati a svolgere le verifiche, i rispettivi momenti di intervento, i tempi della procedura.

Semmai, è da chiedersi quale sia la forma di regolazione più adatta, se la legge o una normativa secondaria (regolamento o linea-guida).

I vantaggi della fonte legislativa sono evidenti in termini di rappresentatività della decisione e di vincolatività nei confronti di strutture e operatori sanitari.

Non va però dimenticato che le questioni hanno un elevato contenuto tecnico. Pertanto, un’eventuale disciplina (e questo vale anche per la legge dello Stato) dovrà rispettare i principi concernenti l’esercizio della discrezionalità normativa in ambito medico-scientifico (definiti a partire da Corte cost. sent. n. 282/2002).

Con almeno due conseguenze: i) nel procedimento di elaborazione sarà essenziale il coinvolgimento degli organismi tecnici competenti in materia; ii) la formulazione del testo dovrà garantire la permanenza di margini di flessibilità che consentano ai soggetti coinvolti di adattare le regole astratte alle specificità dei casi concreti.

4. Rimane, infine, l’aspetto più delicato, quello della possibilità delle Regioni di andare “oltre” la sentenza n. 242/2019, mettendo a disposizione dei pazienti anche il farmaco, il macchinario per l’auto-somministrazione, il personale medico (individuato su base volontaria), nonché una struttura ove poter accedere alle prestazioni.

Scelte di questo tipo, in realtà, sono già state prefigurate o assunte nella prassi (v. il parere della Commissione regionale di Bioetica della Regione Toscana, Liceità condizionata del suicidio medicalmente assistito e sistema sanitario Regionale; i casi di Gloria in Veneto e di Anna in Friuli Venezia Giulia), e, come ho argomentato in altra sede, ritengo che siano non solo coerenti con la ratio della sentenza n. 242 del 2019, ma anche pienamente legittimate dal quadro costituzionale, in particolare dagli obblighi di tutela derivanti dagli artt. 2, 13 e 32, co. 2, della Costituzione, per come precisati dalla giurisprudenza costituzionale, ordinaria e amministrativa.  

Nella democrazia costituzionale, infatti, l’amministrazione non può essere considerata «al servizio esclusivo» del potere legislativo (i.e. del circuito Governo-Parlamento) bensì tenuta ad applicare il diritto, tanto legislativo quanto giurisprudenziale, coerente con i principi e le coordinate assiologiche iscritte nel testo costituzionale.

Per questo è da considerarsi pienamente legittimata ad intercettare bisogni, creare soluzioni innovative, dando risposta anche a interessi non direttamente compresi nel testo delle fattispecie legali ma che la giurisprudenza abbia fatto emergere attraverso interpretazioni estensive e costituzionalmente orientate.

Continuare a escludere questa possibilità, invocando come imprescindibile l’intermediazione legislativa, significa – in questo come in molti altri casi – rinunciare all’effettività dei diritti.

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