Dura lex, sed lex? La querelle sui “Paesi sicuri” nella prospettiva costituzionale post-Granital
di Mario Savino
Università degli Studi della Tuscia
Questo post intende sollecitare una riflessione sull’orientamento dei giudici comuni che mira a contrastare l’applicazione in Italia della procedura speciale di asilo con trattenimento alla frontiera (c.d. procedura di frontiera), prevista da norme dell’Unione. Questa procedura coercitiva genera innegabili tensioni con l’art. 13 Cost. Tuttavia, invece di sollecitare un giudizio di costituzionalità, i giudici hanno sin qui preferito fare leva sulla disapplicazione di norme nazionali di attuazione ritenute in contrasto col diritto UE. In tale quadro, si inserisce la querelle sui Paesi sicuri, oggetto di varie pronunce nazionali e, da ultimo, della sentenza Alace adottata dalla Corte di giustizia il 1° agosto 2025. Ma procediamo con ordine.
Al cuore del Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, operativo da giugno 2026, vi è l’obbligatorietà del trattenimento di alcune categorie di richiedenti asilo nell’ambito della procedura di frontiera. Questa scelta approfondisce il doppio standard di tutela esistente in materia di libertà personale. Quella dei cittadini europei non può essere scalfita dall’amministrazione – data la riserva di giurisdizione – se non in casi eccezionali. La limitazione della libertà dei migranti diviene invece un’ipotesi ordinaria, estesa a chi chiede asilo e si presume abbia poche chances di ottenere protezione. Questa presunzione, dal 2026, poggerà principalmente su un criterio statistico: la provenienza da un paese con un basso tasso di riconoscimento della protezione, inferiore al 20%. Meno oggettivo è invece il criterio del “paese di origine sicuro” (POS) oggi previsto dalla direttiva sulle procedure di asilo del 2013 (DPA) e destinato a sopravvivere come criterio residuale anche nel nuovo quadro normativo. In base alle norme vigenti, le generali condizioni di sicurezza del paese di origine riducono le chances individuali di protezione e, perciò, legittimano una presunzione relativa di infondatezza della domanda, superabile con allegazioni individuali (art. 36 DPA).
Sul piano giuridico, la questione decisiva è la seguente: la procedura di frontiera è compatibile con le norme che tutelano la libertà personale di chiunque, a prescindere dalla nazionalità (art. 5 Carta UE, art. 6 CEDU e art. 13 Cost.)? Porre questo interrogativo servirebbe a chiarire se la compressione della libertà personale dei migranti sia giustificata dall’obiettivo delle norme UE: impedire ai richiedenti asilo considerati “non meritevoli” di spostarsi in altri Stati membri e sottrarsi ai rimpatri, mettendo a rischio la libera circolazione in Schengen. Nessun giudice ha però sottoposto questa domanda alla CGUE o alla Corte costituzionale, forse nella consapevolezza che un accoglimento sarebbe improbabile. Quindi: dura lex, sed lex?
Non per i giudici italiani dell’asilo, che – da settembre 2023, quando il Governo Meloni ha avviato l’attuazione della procedura di frontiera (in territorio italiano e poi anche in Albania) – hanno cominciato, caso unico in Europa, a disapplicare le norme nazionali sulla procedura di frontiera per presunto contrasto col diritto UE. Prima è toccato alle norme di dettaglio sulla garanzia finanziaria; ora, a quelle sulla designazione di paesi come il Bangladesh, l’Egitto e la Tunisia, tutti sotto la soglia del 20% suindicata e a breve comunque considerati sicuri dall’UE. Di qui, un biennio di impasse nello Stato membro decisivo per l’attuazione del Patto: quell’Italia che dal 2026 sarà chiamata a realizzare più della metà delle procedure di frontiera dell’intera Unione (16 mila nel primo anno, 24 mila nel successivo).
La CGUE, con la sentenza Alace del 1° agosto 2025, ha validato il metodo dei giudici italiani, nonostante il contrario avviso di Commissione e Stati membri, nonché della Cassazione e (in parte) dell’Avvocato generale. Reiterando, tetragona, la sua dottrina dell’effetto diretto, la CGUE ha affermato che i giudici nazionali sono “obbligati” a disapplicare la designazione di un POS quando a loro avviso non soddisfa i criteri previsti dalla DPA. Come ho sostenuto altrove, la sentenza appare debole, non perché ribadisce il potere dei giudici di disapplicare, ma perché non ne definisce i limiti. Viene, così, implicitamente avallato l’approccio dei giudici italiani, i quali disapplicano le designazioni con cui non concordano, per di più a prescindere dall’esame delle domande individuali di asilo. Qui, vorrei abbozzare un argomento complementare. Vorrei sostenere l’utilità, in casi come questo, dell’approccio “post-Granital” sviluppato dalla Corte costituzionale negli ultimi anni. Dato per noto il dibattito sulle “svolte” racchiuse nelle sentenze 269/2017 e 181/2024, tenterò di chiarire perché la designazione arbitraria di un POS non dovrebbe essere disapplicata, bensì sottoposta al giudizio di costituzionalità, unico rimedio in grado di evitare una “Babele dei diritti”.
Prima ragione: il dubbio sull’effetto diretto delle norme europee sui POS
Nella giurisprudenza europea, l’obbligo di disapplicare le norme nazionali “anti-comunitarie” si fonda non solo sul primato del diritto UE, ma anche sul suo effetto diretto (il leading case è Poplawski II [2019], §§ 59-69). In particolare, le direttive sono direttamente efficaci se sufficientemente precise, perché stabiliscono un obbligo in termini inequivocabili, e incondizionate, perché non richiedono misure nazionali di attuazione (RTS [2021], § 46) e non assegnano agli Stati membri un margine discrezionale (Link Logistic [2018], § 48).
Alla luce di tali criteri, le norme europee sui POS sono davvero incondizionate? L’art. 37 e l’Allegato I DPA consentono agli Stati membri di designare un POS tenendo conto, tra l’altro, della «situazione giuridica, dell’applicazione della legge in un sistema democratico e delle circostanze politiche generali», nonché dell’assenza «generale e costante» di persecuzioni. Siffatti parametri richiedono l’adozione di misure nazionali di attuazione (la designazione dei POS) e implicano l’esistenza di un margine di apprezzamento riservato alle autorità nazionali. Si può, ciò nonostante, considerare l’art. 37 DPA (integralmente) direttamente applicabile?
La risposta affermativa della CGUE è sommaria e non motivata. Nella sentenza Alace si asserisce che «il margine di discrezionalità [degli Stati membri] non incide sull’obbligo di ogni giudice nazionale di garantire la piena efficacia delle disposizioni della direttiva 2013/32, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione del diritto nazionale (…) contraria a una disposizione di tale direttiva produttiva di effetti diretti», senza dover attivare rimedi «costituzionali» (§ 63). La formula Simmenthal (1978) viene qui ripresa per ribadire il nesso tra l’obbligo di disapplicare e l’effetto diretto della normativa UE sui POS. Tuttavia, il riferimento aggiuntivo al «margine di discrezionalità» contraddice il carattere incondizionato della norma, senza che la CGUE avverta l’esigenza di specificare quali parti dell’art. 37 sono direttamente applicabili e quali, invece, non lo sono perché lasciano un margine discrezionale.
Questa reticenza collide con l’esigenza di chiarezza che emerge dalla prassi dei giudici comuni, i quali tendono a disapplicare la designazione sostituendo la propria valutazione di sicurezza a quella (pur discrezionale) del legislatore. Ma la medesima esigenza emerge anche dalla giurisprudenza costituzionale post-Granital. Nella sentenza 269/2017, l’effetto diretto è indicato come “spartiacque” ai fini della disapplicazione: solo se la norma UE è dotata di efficacia diretta, il giudice (non “deve”, come vorrebbe la CGUE, bensì) “può” disapplicare la legge nazionale contraria; altrimenti, «in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta» il giudice comune non può disapplicare e quindi «deve sollevare la questione di legittimità costituzionale» (§ 5.1). Nella sentenza n. 181/2024, confermato quello “spartiacque”, si aggiunge: «Ove sussista un dubbio sull’attribuzione di efficacia diretta al diritto dell’Unione e la decisione di non applicare il diritto nazionale risulti opinabile e soggetta a contestazioni, la via della questione di legittimità costituzionale consente di fugare ogni incertezza» (§ 6.5). Verosimilmente in risposta alla tendenza della CGUE di riconoscere in modo molto generoso l’effetto diretto, la Corte costituzionale ormai non lo ritiene più di per sé ostativo all’ammissibilità della questione proposta in via incidentale.
Nel caso dei paesi sicuri, la reticenza della CGUE genera incertezza, non tanto in merito all’an (l’effetto diretto è comunque riconosciuto), quanto al quomodo (cioè ai margini di sindacabilità della designazione). Le disapplicazioni ricorrenti in questo ambito testimoniano che il giudice di merito spesso cede alla tentazione di “appropriarsi” di margini di scelta che non gli competono, in nome di un effetto diretto che non distingue tra aspetti vincolati e discrezionali della misura attuativa. Come si è affermato in relazione a casi simili, le norme europee «esibiscono (…) un effetto diretto solo nominale, che non equivale alla somministrazione di una regola precisa, se non a prezzo di valutazioni, bilanciamenti, estensioni e sottrazioni che non dovrebbero competere al giudice comune» (Zanon). Ecco, dunque, una prima ragione per auspicare che la questione approdi alla Consulta.
Seconda ragione: rimediare a un problema sistemico
La sentenza Alace non solo è evasiva sulla questione dell’effetto diretto dell’art. 37 DPA, ma nella sostanza ignora il meccanismo protettivo previsto dall’articolo 36 DPA. Tale norma tutela il richiedente asilo meritevole, che, pur provenendo da un POS, invochi «gravi motivi» atti a superare la presunzione di infondatezza della sua domanda di protezione. Per gli altri richiedenti (non meritevoli), la presunzione resta ferma e consente di sottoporli a trattenimento nell’ambito della c.d. procedura di frontiera, per evitare che possano spostarsi nello spazio Schengen e sottrarsi al rimpatrio. Nella logica dell’art. 36, quindi, il giudice i) dovrebbe sempre procedere al «previo esame individuale della domanda» e ii) non avrebbe bisogno di sindacare la designazione del POS. Per tutelare il richiedente, infatti, basta escludere la rilevanza della designazione ogniqualvolta il richiedente invochi quei «gravi motivi».
Dunque, mentre l’art. 36 imporrebbe la posizione soggettiva (collegata alla domanda di protezione) come oggetto del giudizio, i giudici sindacano la designazione del paese di origine “a prescindere”: la disapplicano, cioè, ogni qual volta una categoria di persone (ad esempio, gli oppositori politici) non sia lì adeguatamente protetta, a prescindere dalle ragioni della richiesta di protezione. Così, però, la tutela va a beneficio non solo di chi appartenga alla categoria sotto-protetta (nell’esempio, del richiedente che si dichiari oppositore politico e che sarebbe comunque tutelato dall’art. 36), bensì a beneficio di tutti i richiedenti, meritevoli e non.
Alla tesi della sufficienza dello schema protettivo dell’art. 36 DPA, qui esposta, si potrebbe, però, obiettare: e se un governo designasse l’Afghanistan come POS? Non si dovrebbe, almeno in quel caso, sindacare la designazione arbitraria in quanto tale, in base ai criteri dell’art. 37? A dicembre 2024, la Cassazione aveva per l’appunto suggerito alla CGUE di ammettere il sindacato sulla designazione in queste «ipotesi limite». A tutela – aggiungo – di interessi diffusi, e non degli interessi individuali già protetti dall’art. 36. La designazione arbitraria determina, infatti, un problema “di sistema”, rappresentato dall’errato instradamento nella procedura di frontiera di un intero gruppo nazionale. Una situazione di questo tipo non può essere risolta con la disapplicazione caso per caso, perché l’incertezza che ne deriva determina, sul piano amministrativo, un’attuazione frammentaria delle norme UE e, sul piano della libertà personale, una evidente disparità di trattamento tra richiedenti di identica provenienza. Questa è, appunto, la situazione venutasi a creare in Italia.
Per risolvere il problema sistemico, occorre una pronuncia con effetti erga omnes, che annulli la designazione legislativa arbitraria e ripristini un accettabile grado di certezza del diritto. Questa conclusione è pienamente in linea con il criterio dettato dalla sent. 181/2024, là dove si afferma: «[l]’interlocuzione con questa Corte, chiamata a rendere una pronuncia erga omnes, si dimostra particolarmente proficua, qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto» (sent. n. 181 del 2024, § 6.5). Incertezza interpretativa, attuazione amministrativa “instabile” e impatto sistemico sono tutti elementi che connotano la fattispecie in esame. E che depongono in favore di una rimessione alla Corte costituzionale, come complemento, in «ipotesi limite», della tutela individuale ex art. 36 DPA.
Verso uno scenario di crisi?
Tra il potere del giudice comune di disapplicare a fini di immediata tutela individuale e il potere della Corte costituzionale di pronunciarsi con effetti erga omnes «può ben sussistere un’integrazione pragmatica» (Repetto). Il caso dei paesi sicuri è, però, peculiare. Da un lato, la tutela individuale è già assicurata dallo schema protettivo dell’art. 36 DPA, che equivale funzionalmente alla disapplicazione, dati gli effetti immediati e limitati al caso concreto. Dall’altro, il problema di legittimità della designazione richiede pronunce con effetti erga omnes. Si noti l’implicazione: se l’art. 36 tutela le pretese individuali (meritevoli) e se il giudizio di costituzionalità serve a correggere il problema sistemico, ne deriva l’assenza di uno spazio utile per la disapplicazione.
Nella sentenza Alace, però, la CGUE afferma il contrario. E lo fa in una prospettiva monoculare, a suo modo muscolare, che guarda soltanto al nesso tra primato del diritto UE e disapplicazione, dando per scontato il medium necessario dell’effetto diretto ed emarginando gli altri rimedi (art. 36 DPA e giudizio di costituzionalità). In quello spazio apparentemente vuoto di rimedi campeggia la disapplicazione. Il risultato è un’eterogenesi dei fini: come si è osservato, la dottrina dell’effetto diretto «inizialmente incentrata sulla soggettività delle persone e sui loro diritti (…) è gradualmente diventata soprattutto uno strumento funzionale all’affermazione del primato del diritto dell’Unione europea in senso oggettivo» (Cartabia-Tega) e questa ambiguità finisce per agevolare operazioni di manipolazione interpretativa, come quella che porta a tutelare categorie di richiedenti che la direttiva 32/2013 non considera meritevoli (amplius, qui, 12 s.). In tempi di crescente polarizzazione, da cui la magistratura non è immune, la disapplicazione rischia così di essere asservita a logiche di counter-majoritarian activism, che alterano la portata protettiva delle norme.
Le corti costituzionali possono fungere da argine a queste derive e – in veste di (più) legittimi controllori delle scelte maggioritarie trasfuse in legge – da “stabilizzatori” dell’equilibrio tra la componente liberale e quella democratica che è alla base dello Stato di diritto nazionale ed europeo. A patto di non essere emarginate. La Cassazione tornerà presto a pronunciarsi sul tema e potrebbe essere quella l’occasione giusta per sollevare una questione di legittimità della designazione di un POS controverso.
Potrebbero, a quel punto, i giudici comuni disapplicare una designazione che abbia superato il vaglio di costituzionalità? Il buon senso e la virtù della moderazione giudiziaria indurrebbero a escluderlo (Massa), ma la “forza morale” della giurisprudenza sui diritti degli ultimi potrebbe sovvertire il pronostico. Tornerebbe allora d’attualità il noto inciso della sentenza 269/2017 («ove per altri profili»), che mirava a escludere la disapplicazione in tali ipotesi. Reiterarlo genererebbe una collisione con la giurisprudenza europea, che non ammette limiti “processuali” alla disapplicazione (Melki; su questa tensione, Gallo). Ma il redde rationem consentirebbe alla CGUE di prendere atto di due dati: che le forzature sull’effetto diretto non favoriscono il suo dialogo con le corti costituzionali (Gennusa); che quel dialogo è fondamentale, perché soltanto le pronunce con effetti erga omnes possono garantire la certezza del diritto e, quindi, l’uniforme applicazione dello stesso diritto europeo.



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