L’academic freedom al tempo di Trump. Un dialogo con Robert Post e Bruce Ackerman: Parte I
di Benedetta Barbisan
Università di Macerata
Al momento in cui scrivo queste pagine, sono sette le università statunitensi che hanno ricevuto tagli ai finanziamenti federali o che sono state ufficialmente informate che i fondi governativi di cui erano destinatarie sono in serio pericolo. Le motivazioni per cui verrebbero sanzionate con misure così severe variano: alcune sono accusate di non aver contrastato sufficientemente la diffusione dell’antisemitismo come Harvard; altre, come la University of Pennsylvania (UPenn), per aver consentito la partecipazione di atleti transgender nelle competizioni sportive universitarie riservate alle donne; altre ancora per aver usato risorse pubbliche per il loro political bias. La Brown University potrebbe perdere più di cinquecento milioni di dollari; Cornell ha subìto una riduzione di quasi un miliardo di dollari e la Northwestern di Chicago una di poco meno di ottocento; UPenn si è vista congelare 175 milioni. Sospensioni per oltre duecento milioni anche a carico di Princeton. Infine, la Columbia spera di recuperare almeno quattrocento milioni tra fondi e contratti dopo aver accolto l’elenco di richieste del governo federale, mentre Harvard, a cui il governo ha già congelato più di due miliardi con altri sette a rischio, si è pubblicamente rifiutata di ottemperare alle pretese dell’amministrazione Trump, facendo causa al governo. Altrettanti atenei sono attualmente presi di mira dalla task force istituita dal Presidente con lo scopo di eradicare l’antisemitismo dagli ambienti accademici che ne sarebbero ormai infestati: la George Washington University, la Johns Hopkins University, NYU, la University of California, Berkeley, la University of California, Los Angeles, l’Università del Minnesota, la University of Southern California.
In un primo tempo, la missiva che il governo ha inviato era redatta piuttosto grossolanamente: tutto quello che, in realtà, se ne ricavava era la pretesa che nei campus venisse proibito di indossare indumenti per nascondere il volto come accade nelle proteste anti-israeliane. A queste istruzioni generiche e confuse è seguito l’invio di un secondo documento da parte del Dipartimento dell’Educazione, quello della Salute e della General Services Administration – cinque pagine di fitte prescrizioni somiglianti a un ultimatum riguardanti le pratiche di ammissione degli studenti, i termini di assunzione del personale docente, lo svolgimento delle attività tenute nelle facoltà e di quelle promosse su iniziativa degli studenti. Più specificamente, questa missiva pretendeva profonde riforme in termini di governance (per esempio, riducendo il peso dei docenti ‘impegnati più nell’attivismo che nella ricerca’) e che le ammissioni e il reclutamento avvenissero sulla base del merito, ‘abbandonando qualsiasi preferenza accordata sulla base dell’etnia, il colore, la religione, il sesso o la provenienza nazionale’. In aggiunta, si esigeva uno scrutinio speciale sulle candidature internazionali ‘per prevenire l’accesso di studenti ostili ai valori americani e alle istituzioni disposte dalla Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza’ e la chiusura immediata di tutti i programmi, uffici, comitati, iniziative in materia di diversity (rispetto indifferentemente da etnia, genere, età, status socio-economico), equity (uguaglianza sostanziale), e inclusion (ambienti nei quali ciascuno si senta ascoltato e valorizzato).
Columbia e Harvard hanno intrapreso due strade opposte in reazione a queste intimazioni: la prima ha capitolato alle richieste del governo con notevoli concessioni, fra le quali rafforzare la presenza della sicurezza privata nel campus per sedare le proteste, inasprire le sanzioni disciplinari a carico di coloro che protestano e collocare il Middle Eastern, South Asian and African Studies Department sotto una nuova supervisione. All’opposto, Harvard ha impiegato meno di settantadue ore per dire no. Il Presidente dell’università, Alan M. Garber – che, di fronte a questi tagli, ha cominciato la decisione di ridurre il suo stipendio del venticinque percento – ha indirizzato una lettera alla comunità accademica in cui ha ribadito che ‘(n)essun governo – indipendentemente dal partito al potere – dovrebbe dettare ciò che le università private possono insegnare, chi possano ammettere e assumere, e quali aree di studio e di ricerca possano perseguire. […] L’università non rinuncerà alla sua indipendenza né ai suoi diritti costituzionali’.
È del 22 maggio la ritorsione dell’amministrazione Trump a questa resistenza: con una lettera firmata da Kristi Noem, segretaria alla sicurezza interna – colei che, solo tre giorni prima, durante una audizione davanti al Comitato per la sicurezza interna del Senato, ha dato dell’habeas corpus la seguente definizione: il potere del Presidente di allontanare le persone dagli Stati Uniti –, il governo federale ha dichiarato l’intenzione di bloccare la possibilità per Harvard di procedere all’immatricolazione di studenti internazionali. ‘Vi scrivo per informarvi che, con effetto immediato, la certificazione dello Student and Exchange Visitor Program dell’Università di Harvard è revocata’, si legge nella lettera di cui il New York Times è entrato in possesso poche ore dopo la sua ricezione da parte dell’ateneo di Cambridge. La motivazione per tale provvedimento – che il Dipartimento della Sicurezza nazionale intende applicato agli studenti futuri ma anche a quelli già iscritti, a cui non resterebbe che trasferirsi presso altre università americane per non perdere il loro status giuridico – risiederebbe nel mancato rispetto di specifici requisiti di rendicontazione.
Nelle stesse ore, il giudice Jeffrey S. White di una U.S. District Court della California ha concesso una sospensiva (temporary injunction) a favore degli studenti internazionali a cui all’inizio dell’anno il governo aveva revocato il visto senza una chiara giustificazione. La decisione è motivata sulla base della presunzione di abuso di potere dell’amministrazione federale con la revoca di massa dello status giuridico degli studenti che partecipano allo Student and Exchange Visitor Program, un numero dei quali ha impugnato il provvedimento e resta in attesa del giudizio. La sospensiva, spiega White, consente ai ricorrenti di contare su una qualche stabilità e certezza della loro condizione per continuare gli studi senza la minaccia di una nuova revoca.
La lettera della segretaria Noem giunge al termine di una investigazione cominciata a metà aprile, quando il Dipartimento della Sicurezza interna ha chiesto a Harvard di rivelare una messe di dati sensibili relativi agli studenti internazionali reclutati (che a Harvard costituiscono circa un terzo dell’intero corpo studentesco) necessari a provare gli addebiti del governo contro l’università, ovvero l’ostilità che l’ambiente accademico ha costruito contro gli studenti ebrei e la sua collusione con il Partito comunista cinese. A questa prima azione, è seguita una lettera pubblica della Executive Vice-Presidente di Harvard Meredith Weenick, nella quale l’ateneo ha ribadito il suo impegno perché gli studenti internazionali ottengano i visti necessari alla loro permanenza. ‘Le nostre migliaia di studenti internazionali, provenienti da oltre 140 Paesi, arricchiscono enormemente la comunità universitaria e la nazione con la loro presenza e il loro contributo’.
Oggi Harvard ha avuto settantadue ore per ottemperare alla richiesta del governo di informazioni sensibili sugli studenti internazionali, ma gliene sono servite meno di ventiquattro per fare causa al governo. Il giudice distrettuale di Boston ha emesso un ordine restrittivo temporaneo contro il provvedimento federale, concordando sul punto rappresentato dai legali di Harvard secondo cui la sua attuazione causerebbe un ‘danno immediato e irreparabile’ all’università. Si tratta della seconda causa intentata dall’ateneo nel giro di qualche settimana, dopo aver sostenuto che i tagli costituivano una ‘evidente ritorsione dell’amministrazione Trump per il diritto pienamente esercitato dall’università di determinare la sua governance, i programmi e l’‘ideologia’ del corpo docente e studentesco’.
Le azioni, insomma, hanno dato seguito alle parole del Presidente Garber: nessuna rinuncia alla propria autonomia e alla academic freedom. Ricordo che, all’inizio del 2020, ero a cena a Cambridge con una esimia collega della Harvard Law School. Solo qualche mese prima era scoppiato lo scandalo delle ammissioni a pagamento in certi atenei dell’Ivy League per i figli di alcuni ricchi e famosi (scandalo a partire dal quale muovono le tesi del libro di Michael Sandel The Tyranny of Merit. What’s Become of the Common Good, Farrar, Strauss and Giroux (in Italia tradotto da Feltrinelli), uscito nel settembre di quello stesso anno). La discussione sulle differenze fra sistemi accademici si protrasse e, alla fine, la mia collega affermò convintamente: ‘Accetterei persino l’ammissione di chi può permettersi di pagare pur mancando dei requisiti per entrare, se questo strappo alla regola significasse avere più mezzi per difendere la nostra autonomia’. È solo un aneddoto, capace, però, di confermare il valore supremo che l’istituzione accademica assegna alla sua autodeterminazione.
Harvard è il più ricco ateneo statunitense, con un endowment di 53 miliardi di dollari, grosso all’incirca come il PIL di Malta e Albania messi insieme, seguito a qualche lunghezza solo da Yale (oltre 41 miliardi). E pure le altre università bersagliate dal governo, per quanto assai meno floride, vanno dai 22 miliardi di UPenn, fra i 10 e 15 di Northwestern, Columbia e Cornell, fino a meno di dieci nel caso di Berkeley e Brown. Ci si potrebbe chiedere che cosa abbiano davvero da temere queste istituzioni – e, in specie, quella di gran lunga più ricca come Harvard – dalla riduzione dei finanziamenti federali o dall’esclusione degli studenti internazionali se possono contare su disponibilità proprie già così ingenti, a proporzione delle quali quello che il governo nega loro non sembra sempre di grandezza tale da mettere in pericolo l’autonomia, tantomeno la sussistenza.
Di questo e di molto altro abbiamo parlato – e ne riferiremo nella seconda parte di questo contributo, pubblicato in un post a seguire – con Robert Post, Sterling Professor of Law alla Yale Law School, di cui è stato Preside dal 2009 al 2017, e con Bruce Ackerman, anche lui Sterling Professor of Law and Political Science a Yale, fra i più eminenti costituzionalisti statunitensi e top legal thinker a livello globale.
La seconda parte del post uscirà giovedì 5 giugno 2025.
Commenti