Le conseguenze istituzionali del riarmo: Parte II

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Marco DaniUniversità di Trento

Agustín José MenéndezUniversidad Complutense de Madrid

Nella prima parte di questo post si è evidenziato lo iato esistente tra l’aspirazione delle istituzioni dell’UE ad instaurare un vero e proprio governo della difesa europea a fronte della minaccia esistenziale posta dal militarismo russo e l’effettivo contenuto del programma di riarmo europeo. In particolare, si è sottolineato come l’assenza di una radicale riforma della governance della difesa europea renda scarsamente credibile il conseguimento dell’obiettivo di una maggiore deterrenza europea. In questa seconda parte, del post si approfondisce l’analisi giuridica delle due principali decisioni in materia di investimenti per la difesa: la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita e il piano Security Action for Europe (SAFE)]

Sospensione o forzatura del nuovo Patto di Stabilità e Crescita?

Per favorire la spesa militare nazionale, la Commissione propone l’attivazione coordinata della clausola di salvaguardia nazionale del nuovo Patto di Stabilità e Crescita (art. 26, regolamento 2024/1263). Una simile decisione sconta l’impossibilità (riconosciuta dalla Commissione stessa) di usufruire della clausola di salvaguardia generale, per la quale è indispensabile una “grave congiuntura negativa nella zona euro o nell’Unione nel suo complesso” (art. 25, reg. 2024/1263), presupposto che – “guerra dei dazi” permettendo – al momento non è ancora riscontrabile. La Commissione ha invitato gli stati membri a richiedere entro la fine dell’aprile scorso l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale (ad oggi sono 16 gli stati membri che hanno aderito all’invito). Entro un mese il Consiglio, sulla base di una raccomandazione della Commissione, autorizzerà a maggioranza qualificata l’allentamento delle regole fiscali per gli stati richiedenti.

Vi sono diverse ragioni per ritenere che un simile modus procedendi sia giuridicamente forzato poiché diretto ad aggirare dei limiti che il legislatore europeo ha stabilito solo l’anno scorso, ossia in una fase in cui della minaccia militare incombente sull’Europa si poteva già avere piena contezza. Anzitutto, la Commissione presenta la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e la connessa minaccia alla sicurezza europea come una circostanza eccezionale “al di fuori del controllo dello Stato membro” con “rilevanti ripercussioni sulle sue finanze pubbliche”. Tuttavia, tale affermazione (in astratto plausibile) viene effettuata a distanza di ben tre anni dall’inizio della guerra, ovvero in un periodo in cui le più gravi conseguenze della guerra sull’economia europea sono già state in qualche modo affrontate. Inoltre, le ripercussioni dell’attuale scenario bellico sulle finanze pubbliche nazionali sono per ora semplicemente asserite, ma non sono in alcun modo documentate con studi, dati, previsioni economiche.

Se su questo specifico punto sarà facile per il decisore politico invocare l’ampia discrezionalità insita in decisioni come quelle di cui si discute, meno agevole potrebbe essere superare un altro ordine di rilievi riguardante l’escamotage dell’attivazione coordinata della clausola di salvaguardia nazionale. Anzitutto, è possibile contestare il presupposto da cui muove la Commissione europea, ovvero la supposta diversità di circostanze che consentirebbero il ricorso alla clausola di salvaguardia nazionale e a quella generale. Come anticipato, la Commissione ritiene che solo la clausola generale sia condizionata all’esistenza di una grave congiuntura economica negativa, mentre della clausola nazionale si potrebbe disporre già in presenza di imprecisate circostanze eccezionali al di fuori del controllo dello Stato membro. A partire da questo assunto, gli asseriti problemi economici generali risultanti dall’invasione della Russia all’Ucraina vengono scomposti in una serie di problemi economici nazionali in modo da aggirare l’ostacolo posto dalla disciplina della clausola di salvaguardia generale. Già così l’operazione suscita non poche perplessità  — un amministrativista vi potrebbe forse scorgere gli indizi di uno sviamento di potere. Ma lo scetticismo aumenta non appena si approfondisce l’analisi delle norme in questione: se infatti è vero che l’interpretazione della Commissione trova un superficiale riscontro nella lettera degli artt. 25 e 26 del reg. 2024/1263, è altrettanto evidente nei considerando 40 e 41 dello stesso regolamento che entrambe le clausole sono state concepite per far fronte a gravi congiunture economiche negative. In altre parole, la differenza tra le due clausole non sarebbe qualitativa, ma quantitativa: la clausola nazionale è diretta a far fronte a congiunture negative circoscritte ad uno stato membro, mentre quella generale a una recessione che interessi il complesso dell’Unione. Se così fosse, nemmeno la clausola di salvaguardia nazionale sarebbe disponibile nella situazione economica attuale.

Dubbi sulla legittimità del ricorso alla clausola di salvaguardia si possono esprimere infine rispetto al suo carattere selettivo. L’attivazione della clausola non condurrà infatti né ad una revisione delle “traiettorie di riferimento” (gli obiettivi di riduzione della spesa pubblica preventivamente concordati in sede europea) né ad un generale allentamento delle regole fiscali (come accaduto durante la pandemia). La Commissione ambisce ad un risultato più mirato, ovvero ad autorizzare lo scomputo delle sole spese militari sia dalla traiettoria di riduzione della spesa netta che dal percorso di correzione all’interno della procedura per deficit eccessivi. Pertanto, le deviazioni consentite in base alla clausola di salvaguardia saranno rigorosamente sorvegliate e contenute con riferimento alle voci di spesa interessate (solo le spese riguardanti la categoria COFOG division 02 – Defence saranno ammesse), all’ammontare (un limite dell’1.5% del PIL è fissato, prendendo come base la spesa militare del 2021) e al tempo (la deviazione sarà possibile per un periodo di 4 anni).

A tal riguardo tre sono i rilievi che si possono muovere. Il primo è che ancora una volta la Commissione sembra imboccare una scorciatoia di dubbia praticabilità rispetto a quello che sarebbe stato lo strumento più indicato per conseguire l’obiettivo prefissato, ossia una modifica al Patto di Stabilità (plausibilmente, all’art. 2 2)) diretta a inserire temporaneamente le spese militari nell’elenco delle spese deducibili nel calcolo la “spesa netta” degli stati membri.

In secondo luogo, vi sono ragioni per ritenere che l’incremento delle spese militari su base nazionale sarà estremamente diversificato. Benché la Commissione si sforzi nel cercare di uniformare l’indebitamento per le spese militari stabilendo il margine del 1.5% del PIL (all’interno del quale si calcoleranno le spese già intervenute in ogni stato dopo il 2021), è risaputo che la Germania ha approvato una riforma della sua Legge Fondamentale che va ben oltre i limiti stabiliti dalla Commissione. A ben vedere quindi, ancora una volta l’effettivo margine di indebitamento di cui potranno disporre gli stati non sarà dato dagli indicatori numerici fissati dalla Commissione, quanto piuttosto dalle condizioni finanziarie di ogni stato, chiamato ad incrementare il proprio debito in assenza (almeno per ora) dell’ombrello protettivo della BCE.

Infine, occorre osservare che la deduzione delle spese militari dal calcolo della spesa netta lascerà invariati i saldi di bilancio solo per i primi quattro anni. Dopodiché, come riconosce la stessa Commissione, “gli Stati membri dovranno sostenere il livello di spesa più elevato attraverso graduali ri-prioritizzazioni all’interno dei loro bilanci nazionali”. Il che, in un linguaggio meno reticente, significherà prevedibilmente aumenti della tassazione e/o riduzioni delle altre voci di spesa pubblica. Il tutto, evidentemente, in nome della protezione del modello sociale europeo. 

SAFE: perequazione modesta e coordinamento limitato

La seconda componente del piano europeo di riarmo è costituita dalla proposta della Commissione europea di una Security Action for Europe (SAFE). Come si è anticipato, lo strumento in questione dovrebbe svolgere una funzione complementare ai programmi di riarmo nazionali (art. 3) proponendosi di assicurare che tutti gli stati membri dispongano di risorse sufficienti per il riarmo e, al contempo, che il ricorso alla spesa militare si svolga in maniera coordinata. Anche qui ci troviamo di fronte ad una forma di intervento già sperimentata durante la crisi pandemica. Già allora si ritenne insufficiente allentare le regole fiscali poiché non tutti gli stati membri potevano ricorrere all’indebitamento nei mercati finanziari in condizioni favorevoli. Di qui una serie di interventi da parte delle istituzioni europee concepiti in una logica di fatto perequativa: prima il Pandemic Emergency Purchase Programme della BCE, poi il regolamento SURE e, infine, Next Generation EU. Ebbene, anche in questa circostanza si avverte l’esigenza di apprestare una qualche forma di perequazione e, attraverso essa, di coordinare le spese militari nazionali.

Il modello seguito è quello di SURE, lo strumento impiegato durante la pandemia per fornire assistenza finanziaria per le spese di sostegno alla disoccupazione sostenute dagli stati membri. Anche SAFE è radicato nella base giuridica emergenziale dell’art. 122 TFUE e, proprio come SURE, autorizza l’indebitamento nei mercati finanziari della Commissione per un totale di 150 miliardi di Euro (art. 6 e 9). Tali risorse saranno a loro volta impiegate per prestiti agli stati membri interessati per finanziarne le spese militari (art. 5). Non è chiaro secondo quali criteri le somme reperite nei mercati saranno ripartite tra gli stati membri né quale sarà il tasso di interesse applicato a questi prestiti (la ratio dell’operazione è che i prestiti erogati siano più convenienti dell’indebitamento diretto degli stati membri nei mercati finanziari). Ciò che si sa è che gli stati avranno tempo fino a 45 anni per restituire i prestiti ricevuti (art. 10) e che gli stati membri dovranno impiegare le risorse in questione principalmente attraverso appalti congiunti con altri stati membri (o stati appartenenti all’EEA o l’Ucraina) (art. 4).

Riguardo alla legittimità di questo strumento, pare consolidarsi l’impiego dell’art. 122 TFUE come base giuridica passepartout per interventi di assistenza finanziaria agli stati membri, anche se occorre segnalare che di recente la commissione JURI del Parlamento europeo ne ha vigorosamente contestato l’applicazione ritenendo che l’atto in questione vada radicato anche nell’articolo 173 TFUE (politica industriale). Al di là dei dubbi più o meno fondati sulla correttezza della base giuridica, ciò su cui piuttosto ci si deve interrogare è la quantità delle risorse messe a disposizione e la loro capacità di assicurare un coordinamento complessivo delle spese militari nazionali. Al riguardo, l’impegno finanziario dell’Unione è sicuramente cospicuo, ma rimane comunque sottodimensionato rispetto a quelli che prevedibilmente saranno i piani di difesa predisposti dagli stati membri. Il che porta a due considerazioni. La prima è che difficilmente SAFE riuscirà a svolgere una efficace azione perequativa, con conseguenze deteriori per la coesione territoriale dell’Unione e la tenuta del mercato interno. La seconda è che, in ragione delle sue dimensioni ridotte, difficilmente SAFE fungerà da catalizzatore di un efficace coordinamento delle spese militari nazionali. Infatti, se è possibile ipotizzare che attraverso gli appalti congiunti la Commissione riuscirà a razionalizzare, non senza difficoltà, gli interventi finanziati con risorse europee, rimane tuttora imprecisato in che modo le spese finanziate esclusivamente con risorse nazionali saranno coordinate al fine di evitare duplicazioni e sprechi.

Il riarmo europeo al di là dei proclami

Almeno dall’agenda di Lisbona 2000-2010, la Commissione europea ci ha abituato a proclami tanto altisonanti quanto inesorabilmente vacui alla prova dei fatti. Il piano di riarmo Preparati per il 2030 non fa eccezione. Se davvero gli stati membri dell’Unione considerano attuale il rischio di un’aggressione esterna, le misure predisposte dall’Unione appaiono inefficaci tanto sul fronte della deterrenza quanto su quello dell’effettiva risposta militare visto che lasciano inalterato un assetto istituzionale che non era stato pensato per fronteggiare guerre ad alta intensità. Ad un’analisi più approfondita, quello deciso dal Consiglio europeo è un programma che, facendo leva su paure reali e, almeno in parte, giustificate dei cittadini europei, si propone nei fatti l’esclusivo obiettivo del potenziamento dei complessi militari-industriali nazionali attraverso un massiccio ricorso all’indebitamento pubblico, ovvero attraverso una misura che in tempi non lontani era ritenuta incompatibile con la sostenibilità dei bilanci pubblici nazionali, benché motivata dall’intento di salvaguardare il modello sociale europeo in una congiuntura economica estremamente difficile. Il fatto che oggi l’indebitamento diventi ammissibile al solo fine di consentire l’incremento della spesa militare, che, contestualmente ad esso, si annuncino ulteriori riduzioni delle altre voci di spesa pubblica e che tutto ciò accada in nome della tutela dei valori e dello stile di vita europei dà la misura del cinismo delle classi dirigenti che ci governano e – ma su questo ci piacerebbe essere smentiti – della passività delle comunità politiche europee.

Autori

M. Dani

Università di Trento

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