Le ore della malattia e l’intermittenza dell’assistenza
di Alessandra Pioggia
Università degli Studi di Perugia
C’è un passaggio nell’ultima sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito, la numero 66 del maggio di quest’anno, che merita di essere evidenziato per quello che ci suggerisce, ben oltre la questione dell’autodeterminazione della persona nel fine vita.
Lo riporto per intero, qui di seguito, non prima di aver chiarito che il ragionamento della Corte muove dal principio personalista che anima la Costituzione. «Da questo principio deriva», si legge nella sentenza, «il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale. Diventa quindi cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte».
La pronuncia in cui questo passaggio è contenuto riguarda, come anticipato, il tema dell’accesso al suicidio assistito e si conclude con l’infondatezza della questione prospettata. Questa riguardava la mancata considerazione, nella riformulazione dell’articolo 580 del codice penale discendente dalla sentenza n. 242 del 2019, del caso in cui i trattamenti di sostentamento vitale non siano in corso, perché rifiutati dalla persona malata, nonostante un’indicazione medica in tal senso. L’ipotesi di incostituzionalità sollevata dal giudice a quo si appuntava sul presunto irragionevole diseguale trattamento fra chi, pur malato terminale e affetto da sofferenze intollerabili, non voglia nemmeno iniziare ad essere mantenuto in vita con l’intervento medico, e chi sia già sottoposto a questo tipo di trattamento. Secondo l’interpretazione del giudice, infatti, solo a quest’ultimo sarebbe riconosciuta la possibilità del suicidio assistito, in quanto effettivamente in possesso del requisito di essere “tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”. La Corte però non ritiene fondata la questione, osservando come l’ipotizzata disparità non sussista, dal momento che il rifiuto di trattamenti per il sostentamento in vita corrisponde in tutto e per tutto al possesso del requisito di cui sopra, ogniqualvolta tali trattamenti siano stati ritenuti dal personale medico come clinicamente necessari per il mantenimento delle funzioni vitali. Avervi rinunciato non preclude quindi, nel caso in cui sussistano anche le altre condizioni previste, la possibilità di richiedere l’assistenza al suicidio.
Il contenuto dispositivo della pronuncia, per quanto importante e significativo per la tormentata vicenda del fine vita nel nostro ordinamento, non è però il tema di queste note.
Mi interessa, invece, soffermarmi su come il passaggio della sentenza sopra riportato metta a fuoco un aspetto chiave della relazione fra la persona malata e fragile e l’amministrazione sanitaria. La Corte, molto opportunamente, sente il bisogno di precisare che il riconoscimento di spazi progressivamente più ampi all’autodeterminazione individuale nel fine vita, non può prescindere da un presupposto necessario: la piena e adeguata presa in carico dei bisogni della persona malata da parte del Servizio sanitario nazionale. Non che fossero mancati riferimenti in tal senso anche in precedenti pronunce, ma, sino ad ora, il tema assorbente è apparso essere quello delle cure palliative e del trattamento (essenzialmente farmacologico) del dolore e della sofferenza psicologici. Qui, invece, a me pare, la Corte fa un passo ulteriore e si occupa anche del “tempo” che separa una prestazione dall’altra. Si perché quello che conta, di fronte al dolore di una vita immaginata e perduta e di fronte alla paura della morte, non sono i mesi, gli anni, nemmeno i giorni, ma sono le ore, come Michael Cunningham fa dire a Richard, malato di AIDS, nell’intenso romanzo The Hours: « there are still the hours, aren’t there? One and then another, and you get through that one and then, my god, there’s another».
Il passaggio della pronuncia della Corte, proprio in questa prospettiva, riveste, a mio modo di vedere, un’importanza nodale. Troppo spesso, infatti, l’assistenza alle persone malate offerta della nostra sanità pubblica non si cura di sostenere la persona nella convivenza con la malattia, che, soprattutto nelle patologie più complesse, invade il tempo di vita, le ore, per l’appunto. L’approccio delle organizzazioni sanitarie è centrato sulla prestazione, ovvero sul singolo intervento diagnostico, di controllo, medico, farmacologico, riabilitativo. Ma nel tempo che separa una prestazione dall’altra, la persona, la sua vita, le sue sofferenze, non sono oggetto di attenzione da parte della sanità. E questo accade anche di fronte alle condizioni di salute più compromesse, come quelle, ad esempio, che esitano in una situazione di non autosufficienza o disabilità che, come lo stesso legislatore (l. n. 104 del 1992) ha riconosciuto, renderebbero invece necessario un intervento assistenziale “permanente, continuativo e globale”.
Sarebbe semplicistico rintracciare la ragione di questa assenza in un singolo fattore, ma non c’è dubbio che dietro modalità di assistenza costruite tutte con un approccio prestazionale, più che di presa in carico complessiva, ci sia anche la cultura aziendalistico produttiva che, da perlomeno tre decenni, pervade la nostra sanità pubblica. L’attuazione che è stata data alla seconda riforma del sistema sanitario nel corso degli anni ‘90 ha fatto propria una idea di sanità come macchina di servizi e le aziende sanitarie sono state concepite come apparati di produzione di prestazioni, “pesate” in termini economici, in modo da controllare la spesa, ma anche in modo da mettere le aziende in competizione fra loro e con i privati accreditati.
Questo ha determinato la sostituzione del concetto di prestazione a quello di cura e, conseguentemente, la perdita di importanza di ciò che non può essere ricondotto ad attività produttiva: il tempo, per l’appunto, ma anche l’ascolto e il sostegno, che vanno oltre la somministrazione di un farmaco e di un intervento medico, e la continuità di attenzione riservata ai bisogni della persona malata. La scomposizione in prestazioni dell’attività sanitaria ha, per di più, polverizzato gli interventi e reso sempre più complesso tenere insieme, intorno alle esigenze della persona, la pluralità delle prestazioni, spesso peraltro fornite da attori diversi, pubblici e privati.
Ecco che allora, il riferimento della Corte costituzionale al tema della continuità ha il tono di un richiamo forte alla sanità pubblica, affinché interpreti l’impegno che le ha assegnato la Costituzione non semplicemente erogando prestazioni, ma prendendosi cura delle persone.
Nelle parole della sentenza, il sostegno a chi convive con la sofferenza della malattia deve essere «non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico». È solo in questo modo che la Repubblica risponde adeguatamente «all’appello che sgorga dalla fragilità». Diventa così «cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa».
Il tema della domiciliarità dell’assistenza è anch’esso nodale. Quando si convive con la malattia, non solo quella terminale, poter restare nel proprio mondo e nella propria rete di relazioni è spesso requisito di una qualità di vita accettabile. Sull’assistenza domiciliare anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nella Missione 6, effettua un investimento importante, di risorse e di organizzazione, ritenendola centrale in un ridisegno della sanità territoriale che dovrebbe incentrarsi intorno al principio della “casa come primo luogo di cura”.
Ma, come ho già considerato in un precedente post in questo blog, non bisogna sottovalutare il pericolo che l’enfasi sulla domiciliarità finisca per spostare il peso della cura su chi nella casa si occupa dei bisogni della persona malata. Solo in piccola parte si tratta di professioniste e professionisti, peraltro retribuiti con risorse private che in pochi si possono permettere; più spesso si tratta di familiari e di persone care, che rinunciano al proprio tempo per prendersi cura della persona malata. L’approccio per singole prestazioni che ancora oggi caratterizza l’assistenza domiciliare lascia, infatti, impresidiata la gran parte del tempo di cura di cui la persona malata necessita. E l’attuazione del PNRR non sta migliorando la situazione, anzi. Gli ultimi dati disponibili ci dicono che sono aumentate le persone assistite a domicilio, ma il prezzo sembra essere quello di una diminuzione del tempo di assistenza erogato a ciascuna di esse. Nel 2023, in media, una persona assistita a domicilio ha ricevuto 14,3 visite di personale sanitario; considerando che una visita dura in media mezz’ora, possiamo stimare che in quell’anno ci siano state 7 ore complessive di presenza in casa della persona malata. La media nel 2019 era di 18 ore. Se teniamo conto del fatto che in un anno ci sono 8766 ore, anche il dato precedente al PNRR era del tutto inadeguato, ma quello attuale si commenta da solo.
Basta guardare a come si svolge la vita quotidiana di Laura Santi, che generosamente ha offerto la propria testimonianza in un servizio della trasmissione Piazzapulita del 12 dicembre 2024, per comprendere come i suoi bisogni di cura siano continui e globali e non trascorra nemmeno un’ora in cui questi non richiedano assistenza intensiva.
Del resto è stata la stessa giurisprudenza costituzionale nel 2024, con la sentenza n. 135, a precisare come siano da considerarsi “trattamenti” necessari a mantenere in vita la persona anche quelle procedure che all’interno delle strutture di ricovero sono normalmente compiute da personale sanitario, ma che a domicilio sono frequentemente apprese e svolte da familiari e caregivers che si fanno carico dell’assistenza del paziente. Non è cosa di poco conto che sia spesso una persona cara a dover somministrare un trattamento di sostentamento vitale, non si tratta infatti di cure affettuose e di conforto, ma di vera e propria assistenza sanitaria. E non c’è dubbio che tutto ciò accada perché, come segnala la corte nel passaggio che ho riportato all’inizio, l’assistenza erogata dalle strutture pubbliche è ancora e sempre di più caratterizzata da «prolungate intermittenze» che lasciano scoperte le ore, ma anche i giorni e le settimane, in cui la malattia e la sofferenza continuano ad affliggere la persona malata.
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